Quando le storie chiedono libertà

Quando le storie chiedono libertà

Volevo scrivere un post, poi nel rileggerlo ho deciso di farlo analizzare dall’Intelligenza Artificiale e questo di seguito è stato il responso:

Un lettore potrebbe avere diverse reazioni a questo post, basate anche sulla propria esperienza personale:

1. Chi è nel mondo creativo potrebbe sentirsi profondamente compreso, specialmente se ha vissuto la pressione delle aspettative o la paura del giudizio. Il post potrebbe essere una fonte di conforto nel sapere che anche altri artisti di successo attraversano queste difficoltà.
2. Gli aspiranti scrittori potrebbero trovare ispirazione nel messaggio di autenticità. Il post suggerisce che il vero successo non sta necessariamente nei numeri di vendita, ma nella fedeltà alla propria voce creativa.
3. Alcuni lettori potrebbero identificarsi con la sindrome dell’impostore descritta nel post, anche se operano in campi diversi dalla scrittura. La sensazione di non meritare il proprio successo è un’esperienza molto comune.
4. Ci potrebbero essere anche lettori più cinici che vedono il post come un’autogiustificazione per non aver mantenuto il successo iniziale, interpretandolo come una razionalizzazione del “fallimento” nel replicare quel primo successo.
5. Altri potrebbero apprezzare particolarmente l’onestà e la vulnerabilità mostrata nel post, vedendolo come un coraggioso atto di condivisione personale.
6. I lettori più pragmatici potrebbero essere incuriositi dal vedere cosa produrrà questa scrittrice ora che ha deciso di pubblicare nuovamente, creando un’anticipazione per le opere future.

Leggendo tutte le osservazioni la numero quattro è stata quella che mi ha fatto cancellare quanto avevo scritto perché la domanda è stata: Mi sto autogiustificando? Sto razionalizzando?

Me lo sono chiesta onestamente e la risposta è stata: Sì.

Il punto quattro è quello che mi ha più colpito perché ha colto una verità nascosta che tengo dentro di me. Dentro il bunker del mio cuore. Ma non si riferisce al fallimento bensì ad un’altra verità.

E ora la svelo qui, così forse me ne libero.

Qui almeno non viene nessuno a leggere.

Questo spazio è come una bottiglia con un messaggio lanciata nell’oceano del web. Chi la trova, la trova. Non cerco like, non voglio commenti, non ho bisogno di consensi. È solo il mio modo di lasciare una traccia autentica, senza il rumore di fondo dei social.

Un luogo tranquillo dove le parole possono respirare e dove, forse, qualcuno che ne ha bisogno potrà trovarle al momento giusto. E quindi la libero questa benedetta verità.

Il mio tentennare a continuare a scrivere il genere romance, e pubblicarlo, nasce da un evento, qualcosa che è accaduto dopo poco il successo dell’Uragano di un Batter d’Ali, qualcosa di inaspettato e che forse con quel libro ho attirato a me. Ho incontrato nella vita reale una persona tossica, narcisista, una brutta persona, manipolatrice, e quell’idea dell’amore totalitario, irrazionale, folle che avevo descritto nell’uragano l’ho vissuto sulla pelle e fin dentro l’anima. E quando si vive una follia del genere si resta feriti così profondamente da non poter più scrivere storie tanto devastanti perché tu per prima ne conosci il dolore vero, e scrivere un lieto fine diventa impossibile. Ecco anche il motivo per cui a quei tempi decisi di finire il libro “Se fossi qui con me questa sera”, progettato per essere un altro tipo di storia, in modo oscuro, senza il lieto fine che ovviamente provocò tanti cuori infranti fra le lettrici, ma era il più vero e reale che potessi scrivere senza sentirmi ipocrita.

Dopodiché, quando mi sono trovata a scrivere nuovi romanzi negli anni successivi per forza di cose scavavo e riscavavo e riscavavo nella mia ferita facendo diventare la scrittura un incubo, un tunnel nel dolore dove non sapevo più se ero io o la protagonista e tutto si mischiava. E se non si riesce a consolare la tua anima non si riesce tanto meno in un romanzo, che alla fine continui a scrivere, amplificando il dramma, e senza dargli mai una fine, perché non esiste il lieto fine per certe storie.

Questo è il motivo per cui non ho più pubblicato storie tormentate, di amori assoluti. Perché faceva male, a me. Ci è voluto del tempo, per riemergere dal tunnel di chi cade nell’abuso romantico. Ci è voluto parecchio tempo per ricostruire la mia anima, la mia autostima. Accettare la vergogna. Parecchio tempo. E volete sapere quando mi sono accorta che qualcosa era cambiato, che forse ero guarita dall’inguaribile?

Quando riprendendo quei romanzi nel cassetto senza fine e attorcigliati attorno al dramma e al dolore, li ho riletti senza soffrire. Con occhio esterno.

Così ho ricostruito quelle storie che ora sono leggermente diverse perché caratterizzate da altri punti di forza, storie più sane ovviamente perché è quello che ci meritiamo.

La notizia quindi è che ho deciso di liberare quelle storie accumulate nel cassetto. Non più una alla volta, con cautela, ma tutte insieme, come uno stormo di farfalle che prende il volo. Non mi interessa se a distanza di anni non corrispondono alle aspettative del mercato o se si adattano a un genere specifico. L’importante è farle volar via. Quindi a breve comunicherò le uscite.

Inconsueto

Inconsueto

Aiuto si parte!

“Hai preso tutto?”, chiede Milvia.

“Sì, tutto”, rispondo.

L’arzilla vecchietta che mi ha appena offerto un caffè è la mia vicina di casa, un’ultraottantenne che indossa i suoi anni con eleganza e garbo. La sua mente è tanto vispa da far invidia ad una ventenne. Ha insegnato per quarant’ann al liceo Parini di Milano utilizzando i brani del Boss e dei Pink Floyd inoculando oltre a perle di saggezza anche una dose massiccia di inglese. Sarebbe stata l’insegnante ideale per me, sono certa che il mio inglese ne avrebbe beneficiato. E’ un’evoluta, una che si distingue, una che ami solo a guardarla. Un’anima antica e rara e mi conosce da quando ho sei mesi, come gli altrettanti abitanti del condominio in cui vivo, anzi dove praticamente sono cresciuta.

Appoggio le chiavi di casa sul tavolo della sua cucina. E’ mia abitudine lasciarle sempre un mazzo di scorta per ogni evenienza, io le sue le ho già da qualche anno.

Sono in procinto di partire per i consueti venti giorni di ferie agostiane. Di regola, dovrei esserne felice, ma non è così. Vado da mia madre a Roquebrune Cap Martin, nella faraonica villa di mio fratello Andrea affacciata sulla baia di Montecarlo. Vivono insieme, o meglio, lei soggiorna in una dependance nell’immenso giardino padronale. Ha l’alzheimer, conclamato e solo grazie alle risorse finanziarie di mio fratello può guardare il mare dalla sua poltrona tutto il giorno senza preoccuparsi del resto della sua vita. Se non ci fosse stato lui cinque anni fa’ non so davvero che cosa ne sarebbe stato di lei e di me. Quando mi chiedono come sta mia madre rispondo solo: “Vive in un giardino”. Ed è vero. Un eden alla vista e anche nella sua mente ormai regredita a una vita parallela, dove la sua vera famiglia non esiste più.

Andrea è partito per un viaggio in Messico insieme a Sara, la sua seconda moglie. Per venti giorni presidierò il promontorio monegasco. L’unico beneficio di queste ferie, imprigionata in una villa da fantamilionari, è che avrò il mare di fronte agli occhi in ogni dove, una piscina da sogno, un giardino all’italiana, una palestra accessoriata, cantina dei vini grande quanto la mia camera da letto e servitù a prepararmi manicaretti di ogni genere. Bello, tutto molto bello, peccato che io sia l’antitesi di mio fratello. Siamo diversi e simili, e dalla caparbietà contrapposta. Io preferisco il campeggio, il trekking, una spiaggia di sabbia anche accalcata e panini imbottiti di modestia e povertà al lusso che invece ha scelto di volere lui e che ha ottenuto con tutto se stesso.

“Saluta tanto la mamma e dalle un bacio da parte mia, si ricorda di me vero?”, chiede Milvia sulla porta dell’ascensore, con la sua voce inconfondibile da fumatrice seriale.

“Sì, ricorda tutti i vicini di casa tranne dei suoi due figli”, rispondo dandole un bacio.

Milvia sospira e colgo in lei la solita solidarietà compassionevole. Le voglio bene. Davvero. E’ una vicina di casa amorevole e soprattutto poco impicciona.

Prima di mettere in moto l’auto spunto la lista mentale delle cose messe in valigia. Sono sicura di aver dimenticato qualcosa, ne sono quasi certa, e talmente tanto che non mi viene in mente nulla di specifico. Lo scoprirò a cento chilometri da casa, come sempre. L’importante però, come dice Federica, la mia migliore amica, è avere sempre mutande a volontà, tampax, strisce depilatorie e un rossetto, il resto lo si può recuperare facilmente nel peggior negozio cinese del mondo.

Il traffico in autostrada diventa più scorrevole una volta presa la biforcazione per Ventimiglia. Radio Freccia e pensieri a galopparmi in testa e tra questi uno perpetuo che si ripropone ogni dieci.

Non ho più saputo nulla di lui, niente di niente. Potrebbe essere morto e nessuno avrebbe il coraggio di dirmelo, oppure potrebbe avere avuto un figlio ormai di qualche mese e altrettanto nessuno me lo direbbe. Perché è meglio così. Io non l’ho più cercato, lui nemmeno, ma resta il fatto che lo penso ancora. Ho stabilito il contatto zero che significa sforzarsi di non cadere nella trappola social, e obbedisco al diktat della mia anima. Non spio, non cerco, e banno ogni sentimento. Federica dice che è ora di trovarmene un’altro, il famoso chiodo scaccia chiodo, ma è una cazzata. L’ho già fatto prima che lei mi desse il sommo consiglio di chi non sa cosa dire davanti ad un’amore finito e un’ossessione che non scema. 

Sono uscita con uno, anzi tre per la verità, ma ho deciso di chiudere la faccenda uomini al quarto appuntamento. Ho un lanternino molto piccolo che sembra attirare tutto ciò che è piccolo. Cervelli piccoli e corrispettivi peni delle medesime dimensioni. Proprio piccoli. Piccoli tappi irsuti, ma tappi. Ne ho accettati due, nella speranza che fossero un chiodo sufficiente, ma al terzo non me la sono sentita e gli ho offerto un fellazio, rendendogli il favore di avermi fatto venire di lingua. Invece con il quarto, nonostante mi avesse inviato la foto del suo pisello, mi era bastato stringere la mano e vedere un buco nero tra i denti per accusare un mal di testa lancinante e tornarmene a casa. Ho cancellato il mio account dall’applicazione nota per la ricerca dell’anima gemella disinteressandomi completamente al genere maschile.

Sono sfigata, ormai è conclamato. Conosco persone che fanno sesso come se non ci fosse un domani, di qua e di là. Tutte belle fighe, o bei fighi. Forse mentono, oppure hanno un’energia da acchiappa sesso, che io no ho. Devo avere un problema karmico. I fighi non mi cagano, i normali sì, e però spesso, come ho già scritto, mi sorprendono sempre per la pochezza mentale e fisica. Sempre Federica dice che a volte pecco di superbia. Sarà vero, ma non credo. Non ho dei pregiudizi, e forse è questo il problema. Sono una credulona e ho un basso senso dell’autostima. Comunque, come dicevo,  ho abbandonato definitivamente l’idea di trovare qualcuno da quando nella mia vita è entrato Lelo. Il vibratore sonico per eccellenza, un vero amico oserei affermare. E’ nella pochette in valigia. Viene con me, per farmi venire e di lui non me ne sono dimenticata. Un gioiello sessuale con il quale raggiungo l’orgasmo che un uomo non sarà mai in grado di darmi.

Durante il viaggio sono solita fermarmi sempre nello stesso autogrill, quello subito dopo l’uscita di San Bartolomeo al Mare. Il parcheggio è comodo, i bagni puliti e il locale ha una buona selezione di focacce e panini all’occorrenza. Una pipì, un caffè dopo, uno sguardo vago al paesaggio, varie occhiate da parte di camionisti abilmente schivate e riparto alla volta della Francia.

Gli ultimi chilometri dell’autostrada prima della frontiera sono quelli che preferisco, il traffico è ormai scemato di uscita in uscita. Al casello so che ormai sono in dirittura d’arrivo. Poco meno di quindici minuti e sarò al capezzale di mia madre. Non sono mai felice di vederla. Mai provato gioia, ma sempre e solo quella fottuta frustrazione nel doverle stare vicino mostrando un sorriso benevolo quando nel profondo avrei voluto solo che non fosse lei, mia madre. 

Non la amo, non so nemmeno cosa dovrei provare per lei. Può sembrare una cattiveria, ma non è così, è la verità più vera. Il mio amore, se proprio devo chiamarlo così fatto di compassione scoraggiata. Sono cresciuta guardando le altri madri e le mie amiche chiedendomi sempre che relazione ci fosse realmente fra loro. Come dovrebbe essere l’amore tra figlia e madre? Io non lo so. Non lo conosco quel sentimento. Tutto ciò che provo nei suoi confronti è ormai insofferenza. Non mi ha dato nulla, lei, se non paure, delirio, e insicurezza a causa della sua schizofrenia che ha accompagnato la mia crescita da che sono venuta al mondo. Una forma di depressione post-partum degenerata in psicosi con manie persecutorie. Sono cresciuta osservando la sua follia in un angolo della stanza insieme a mio fratello, ma più grande di me di dieci anni, lui ne è rimasto meno paralizzato ma comunque colpito anche lui nell’anima. 

Non sono mai bastati i farmaci a fermare le allucinazioni, solo l’alzheimer ha tolto di mezzo le psicosi rendendola serena nel nuovo mondo che ha creato nella sua testa. Dice che non ha figli e che suo marito è un dottore di Roma, un certo Ottavio. Non ho idea se sia fantasia o semplicemente ciò che avrebbe voluto dalla vita. Mi chiedo anche se questo dottore di Roma sia mai esistito. Forse un amore mai sopito, un’ossessione che le è rimasta dentro nonostante poi abbia sposato mio padre e fatto due figli. Non ho idea. 

L’alzheimer, per quanto abbia messo fine ai deliri, rendendo me e mio fratello in parte più sereni, ci ha tolto l’unica speranza che un giorno potesse svegliarsi dal suo incubo peggiore e rivolgerci finalmente un vero sguardo d’amore condita da un sorriso tutto per noi. Ma no, non accadrà mai, e io sopporto a modo mio ingoiando i rospi, mentre mio fratello lo fa’ nel modo che conosce meglio. Delegando per mezzo dei soldi ad altri le cure per sedarla. E anche se ora sono adulta e quei sentimenti di terrore e odio in parte li ho interiorizzati resta una sola sensazione: la noia. Noia che ci sia ancora, noia che debba continuare a recitare con un sorriso. Noia che il mio nodo biografico sia ancora lì ogni volta che mi specchio nei suoi occhi e penso che forse chissà un giorno anche io potrei uscire di testa come lei. Devo sempre fare un sforzo per trovare di nuovo il baricentro e distaccarmi dalla sua influenza. E so fin da adesso, mentre sto imboccando l’uscita per Montecarlo che tra esattamente venti giorni tornerò a Milano provata emotivamente e una narcolessia a far piazza pulita dell’insofferenza delle mie ferie.

Quando raggiungo la villa, Liliana, la badante di mia madre, mi fa accedere al parcheggio interno. Sistemo la mia piccola Yaris tra le Porsche e la Ferrari nera e faccio attenzione ad aprire lo sportello. Le auto accanto sono splendidamente lucide, la mia invece ha il segno di un paio di merdate di piccione milanese. Poco importa, sono certa che Otis, il domestico di casa, si preoccuperà di farmela lavare al più presto e, con ogni probabilità, la sposterà nel luogo consono ad un’utilitaria dei poveri, ovvero nel retro e nascosta alla vista.

Ci sono tre gradini davanti ai miei piedi. Li faccio uno a uno mentre le spalle cedono già alla pesantezza che mi aspetta dietro la porta.

Ce la posso fare, ripeto a me stessa, ce la posso fare mentre sorrido a Liliana e vedo il volto del mio tormento affiorare dietro di lei.

Chi sei?

“Guarda Laura è venuta a trovarti Giulia, tua figlia”, dice Liliana chinandosi su mia madre il cui sguardo vago è puntato alla televisione dove immancabile su Rai Uno trasmettono una replica di Don Matteo.

“Ciao mamma”, dico avvicinandomi.

Mia madre strizza gli occhi e sbatte le palpebre donandomi poi un gran sorriso, che ormai regala a tutti indistintamente che sia l’addetto alla derattizzazione del giardino o il milionario di passaggio a far visita a mio fratello.

“Buongiorno è qui per farmi la manicure?”, chiede allungando la sua mano gelida. Con la vecchiaia la pelle delle sue mani si è fatta spessa come la cotenna di un maiale.

Annuisco e sorrido a lei e a Liliana accanto. “Sì Laura, sono venuta da Milano, che smalto vuoi mettere oggi?”, le dico sedendomi su un piccolo puff accanto alla sua poltrona.

Lilliana capisce al volo l’antifona e recupera dal bagno due flaconcini di smalto. Oggi, stamani, e forse anche nel pomeriggio per mia madre sarò l’estetista. Stasera chissà?

“Quello rosso o vuoi ancora il color albicocca?”. dico mostrandole i colori.

“Voglio lo smalto rosso, stasera esco a cena”, dice.

“Ohilà!”, dico sorpresa mentre Liliana adagia su un tavolino acetone e armamentario vario per la manicure. “Ci mettiamo in ghingheri allora, Laura?”.

Sorride come una ragazzina e abbassa gli occhi come se provasse imbarazzo.

“Stasera mio marito mi porta fuori a cena”.

“Che bello!”, esclama Liliana che finalmente si è seduta sul divano accanto prendendosi una meritata pausa. E’ di origine ceca, ma posso affermare che è più italiana di altre in circolazione. Vive nel nostro Bel Paese da venticinque anni. Da quando un’estate in vacanza ha conosciuto un bel ragazzo calabrese per cui ha lasciato la sua casa nel nord. Da sette anni vive invece ad Arma di Taggia, da sola, il bel ragazzo calabrese è rimasto al paese convolando a nozze con una di quindici anni meno.

Lilliana è una bellissima donna, vivace e che non si è arresa e non si arrende ancora alle prove della vita. Nel fondo del suo cuore è sempre speranzosa di trovare un amore giusto, ma allo stesso tempo quel cuore è talmente disilluso che non si pone la questione, tuttavia noto i suoi capelli di una colorazione differente e penso che gatta ci cova.

“Dove ti porta tuo marito a cena?”, chiedo levando con il cotone le tracce del precedente smalto color albicocca.

“Non lo so, è una sorpresa. Ha detto che è in riva al mare”.

“Sarà un bel posto, sono sicura che farete una cena a lume di candela”, dice Liliana sbadigliando.

“Sicuramente”, dico.

“Lei è sposata signorina?”, chiede mia madre e il mio finto sorriso benevolo casca a terra. Fermo il trattamento per guardarla dritta negli occhi. Non c’è traccia di lei ormai, non c’è più quella cupezza di cui avevo il terrore da bambina. Vorrei dirle che per tutti i miei venticinque anni prima del buio della sua mente non ha fatto altro che ripetermi ogni santo giorno di non sposarmi e di non fare figli. Ogni santissimo giorno le sue mani si sono strette ai miei avambracci, i suoi occhi a dieci centimetri dai miei e quel maledetto monito detto a denti stretti. “Non sposarti e non avere figli!”.

Sì, questo è il mantra mentale che ha accompagnato la mia identità. Non credere all’amore e non procreare. Diffida della vita.

Vaffanculo stronza! Questo invece è il pensiero, questo quanto desidero dirle e urlarle in faccia, ma faccio zen, come sempre, da sempre e per sempre. Ingoio il rospo e lascio correre.

“No, Laura, aspetto il principe azzurro”, rispondo. Con le forbicine elimino alcune pellicine alle sue dita.

“Io l’ho trovato il principe, lo sa che mio marito Ottavio è un rinomato dottore? Lei pensi ha conosciuto anche il Papa”, dice orgogliosa.

“Bello!”, rispondo alzando gli occhi al mobile alle sue spalle dove tra le cornici in argento scovo quella con il volto di mio padre Vasco. Gli sorrido nel nulla ormai lontano da me e socchiudo appena gli occhi. A volte penso a quanto ha retto la situazione con mia madre per me e mio fratello e oggi, nonostante i sacrifici immensi per tenerci insieme e non farci ammattire pure noi, lei nemmeno se lo ricorda più. L’ironia della sorte si chiama e molto triste a pensarci bene.

Mi affretto e le spalmo lo smalto, voglio allontanarmi. Prendere un respiro. L’odore di mia madre non mi piace. Mai piaciuto. E starle così vicino me lo sento entrare nelle narici e prendere possesso del mio corpo, di me. Termino veloce e mi alzo.

“Adesso Laura non ti devi muovere, devi aspettare che lo smalto si asciughi”.

“Va bene, grazie signorina. Lei è molto carina”.

Grazie, tutta mia madre mi verrebbe da dire, ma faccio finta di nulla. Ancora ingoio e lascio correre, speranzosa che un giorno qualcosa mi renda libera di essere.

“Liliana porto le mie cose in villa, il codice d’accesso è sempre lo stesso?”.

“Sì, lo stesso”.

“Laura, ci vediamo dopo. Vengo a vedere la televisione con te dopo, così ti sistemo anche i piedi”.

“Va bene grazie”, dice con un sorriso.

Quando tornerò sarò un’altra signorina per la sua testa e va bene, entrerò in una nuova sceneggiatura, almeno mi divertirò un po’ con Liliana in discorsi senza senso.

Esco dalla dependance e getto uno sguardo al mare e a Montecarlo. C’è un mega barca che spicca di fronte alla baia. La riconosco, ricordo di averne letto su un giornale e costa la bellezza di quattrocentocinquanta milioni di euro. Una barca… E’ di un russo, e penso che il mondo è un luogo distorto e contraddittorio. Quattrocentocinquanta milioni per una barca spesi dal magnate che in quel momento starà pranzando a suon di aragosta, equivalgono ai quindicimila euro per una macchina di un uomo medio. La proporzione è davvero sconcertante a pensarci. Gli zeri dopo la virgola prima di arrivare al tre percentuale sono davvero troppi. Paraganando i fior di milioni spesi per uno yacht ad uno stipendio comune si potrebbe dire a conti fatti che un’auto costa cinque centesimi.

Qualcosa mi lecca la caviglia, abbasso lo sguardo e vedo ai miei piedi un micro-cane. Un Jack Russel, per la precisione.

“Chi sei?”, chiedo piegandomi sulle ginocchia prendendolo in braccio. Mi lecca la faccia e lo allontano un poco per guardarlo meglio. E’ vivace e simpatico come tutti i simili della sua razza. Ha una macchia a contorno dei un occhio.

Non sapevo che mio fratello avesse preso un nuovo cane. Carlotta e Arturo, i due pastori del Bovaro li ho sentiti abbaiare appena sono arrivata, ma sono chiusi nel recinto per non dar fastidio al giardiniere intendo a sistemare alcune aiuole. Faccio qualche passo e vedo una pallina da tennis tra i fili d’erba tagliati al centimetro. Mi piego rimettendo la bestiola a terra e cerco di prendere la palla, ma i denti aguzzi del cane la inforcano prima che riesca e non ne vogliono sapere di lasciarla andare.

Provo un paio di volte a toglierla dalle sue fauci, poi mi arrendo, e anche lui, intuendo che mi sto scocciando. Tento ancora la presa e di nuovo si avventa su di essa. Cane, penso, sei un cane. Potrebbe fare questo gioco per sempre senza stancarsi. Riesco infine a rubargli la pallina e la lancio lungo il prato. Mentre aspetto che torni a portarmela dalle mie spalle sopraggiunge un acuto profondo emesso da una voce gutturale e maschile che mi fa sobbalzare dallo spavento. Anche il cane si è allarmato tanto da arrestare la sua gioia canina a metà strada e proseguire chino chino fino a raggiungere i miei piedi.

Sento ancora quel grido acuto e sono preoccupata, non tanto per me, ma per la bestiola che si è stesa a pelle di leopardo sopra le mie scarpe.

Mi volto e da oltre la siepe che separa il giardino con quello confinante vedo elevarsi un uomo. Dice qualcosa, ma non lo capisco.

“Non parlo in francese”, dico in italiano. Qui a Montecarlo sono per la maggioranza italiani e i pochi francesi, anche se fanno finta di nulla, capiscono benissimo la lingua italiana.

“Cane”, dice in inglese, “Per favore, il cane”, dice ancora.

“Ah”, bofonchio. Afferro pelle di leopardo che tremolante tra le mie mani subito infila la testa sotto al mio mento. Cristo Santo, mentre mi avvicino alla siepe per consegnargli la bestiola colgo di passo in passo maggiori particolari del tipo, e comprendo il terrore della piccola creatura tra le mie braccia. Non penso sia normale che un uomo riesca a superare una siepe di due metri, ma lui ci riesce e non capisco.

In inglese, mentre mi avvicino gli spiego che l’ho trovato in giardino e pensavo fosse, ma non mi fa finire la frase che apostrofa il nome del cane “Zezze”, credo di capire e mi dice senza molte cortesie: “Dammelo”.

Attraverso le fronde della siepe vedo che è in cima ad una scala e mi tranquillizzo. Ha una normale altezza. Alzo il cucciolo che si divincola. Mi dispiace. Se un cane è così impaurito non so cosa pensare.

Il tipo si sporge oltre la siepe e vedo solo dei bicipiti e pettorali calarmi addosso. Sono fin troppo sviluppati e completamente ricoperti di tatuaggi. I suoi occhi, di ghiaccio, nemmeno mi sfiorano. L’espressione inflessibile. Un volto del genere è in grado di sorridere a qualcuno che sorride sotto di lui mentre gli restituisce l’amato cane? Non sembra.

“Tenga”, dico passandoglielo tra le mani. Noto le nocche e i dorsi tatuati. Una pistola, un coltello, un teschio. Insomma il solito armamentario da tattoo.

Afferrato il cane sparisce senza proferire parola alcuna e  tutto finisce così.

Lo sento oltre la vegetazione rimproverare il cane, e intuisco dalla cadenza della lingua che il tipo è russo. Negli ultimi anni il Principato di Monaco si è riempito di gente dell’est. Ricchi magnati che nulla hanno a che vedere con l’orda migratoria che attanaglia il Paese. Stanno portando enormi capitali nelle casse del piccolo Stato d’elité, tanto che il nuovo quartiere sorto a sud ovest da poco è ormai un sobborgo di moscoviti.

Torno sui miei passi e intercetto la pallina da tennis tra i piedi, la raccolgo e la lancio oltre la siepe senza troppi pensieri.

“Buongiorno Signò”, sento alle mie spalle.

E’ Otis, che appare sempre trasandato come Sampei. Mi sforzo di non ridere, quando parla mi ricorda Ariel il domestico filippino interpretato da Marco Marzocca.

“Fatto buon viaggio, Signò”.

“Sì, tutto bene, tu come stai Otis?”.

“Tutto bene, signò”.

Sto per chiedergli in quale stanza posso portare la valigia ma qualcosa mi tocca il piede. Abbasso lo sguardo e c’è Zezze scodinzolante con la pallina in bocca.

Oh cazzo! A quanto pare un cane si è innamorato di me!

 

Cosa rimarrà di me e te

Cosa rimarrà di me e te

Capitolo 1

Prima di ogni cosa

Il volo da Vancouver a Portland era stato più breve di quanto mi aspettassi, complice la letargia in cui ero caduta appena il carrello si era staccato dalla pista. Ancora con la cintura di sicurezza allacciata osservavo dal finestrino le ultime operazioni di attracco del finger al terminal e la mia speranza era che una volta scesa sarei riuscita a sfoderare un sorriso decente.

La realtà, invece, stava aggrappata con una morsa allo stomaco. Tornavo a casa dopo cinque anni, e a sole due ore e mezza dal sedile a cui ero ancorata c’era ad attendermi la mia famiglia riunita al completo, la cittadina di Trail da cui ero sparita notte giorno, e il peso maligno degli sguardi dei suoi cinquecento residenti. Avrei fatto volentieri a meno del viaggio nel tempo, ma avevo fatto una promessa a mia sorella. Una di quelle da croce sul cuore. Sarei stata la sua damigella d’onore e l’impegno non contemplava rifiuti di sorta.

Recuperato il bagaglio a mano e spinta dalla frenesia degli altri passeggeri mi trovai a percorrere il corridoio verso l’uscita più in fretta di quanto avessi voluto.

Ad aspettarmi Leonard, il fratello del fidanzato di mia sorella. Rientrava da Seattle, anche lui, per assistere alla cerimonia e si era reso disponibile a recuperarmi lungo il tragitto. Non lo vedevo da parecchio tempo, ma dubitavo fosse cambiato, nessuno lo faceva nella Contea di Jackson, come l’agente aeroportuale che mi intimò di fermarmi al controllo uscite internazionali. Era identico al giorno in cui me ne ero andata, al contrario di me. Per fortuna le impronte digitali confermarono la mia identità decisamente diversa dalla fotografia sul passaporto appena mostrato.

Abigal Foreman”, mormorò l’agente dopo avermi scrutato a lungo alternando lo sguardo da me al terminale.

E’ di Trail?”

Sì”.

Motivo del viaggio?”.

Sono tornata per il matrimonio di mia sorella”, risposi.

Bentornata Abigal”, disse con un sorriso gentile riconsegnandomi il documento.

Speriamo”, mormorai o forse lo pensai.

All’uscita cercai Leonard tra le persone in attesa dietro la transenna degli arrivi. Nessuno dei presenti ad un’occhiata veloce sembrò corrisponde ai miei ricordi.

Doveva essere in ritardo. Poco male, pensai, e adagiata la valigia a terra ne approfittai per recuperare una felpa. Non ero più abituata alle particelle di umidità che persistevano in Oregon anche sotto il sole estivo. Inalterate e pungenti riuscivo a sentirle risalire la spina dorsale come un piccolo insetto a cinque zampe. Non che l’umidità fosse tanto differente da quella di Vancouver, ma l’Oregon era notoriamente una spugna pregna di acqua ben peggiore.

«Abigal!?».

Alzai lo sguardo e trattenni un sussulto quando vidi un uomo in piedi davanti a me sorridermi. Non poteva essere Leonard, non uno dei tizi che avevo adocchiato di sfuggita poco prima. Non c’era nulla di lui nel fusto a meno di mezzo metro a parte gli occhi, il sorriso, e la sua faccia. Nessun berretto logoro a trattenere la chioma crespa che sarebbe stato un torto ai lunghi capelli che oggi gli cascavano sulle spalle. Non indossava neppure la camicia di flanella a quadri che ricordavo essere il suo outfit preferito, bensì una maglietta dei Soundgarden sotto la quale due grossi pettorali gonfiavano il tessuto di cotone e facevano intuire come fossero gli addominali.

«Leo?», chiesi incerta.

«Sì! Aby è davvero passato un sacco di tempo non ti riconoscevo più. Sei… diversa!», tentennò sventolando la mano su e giù davanti ai miei occhi.

Da che pulpito, pensai.

«Be’ anche tu non scherzi, sei Leonard Foster vero?», domandai ironica accertandomi che fosse proprio lui lo sfigato fratello di Robert.

Leonard si passò una mano tra i capelli mischiando nel gesto imbarazzo e orgoglio di sé.

«Ebbene sì, sono io, ho solo fatto un po’ più di esercizio fisico e lavorato molto», disse con soddisfazione.

Non ci credevo. Un cambiamento del genere presupponeva la presenza di una donna nella sua vita, e non una qualsiasi. Una sexy, e si poteva presumere pure una ninfomane. La sua figaggine era fatta di testosterone sviluppato sì da tanto tanto esercizio fisico e lavoro, ma non di fatica come uno avrebbe potuto immaginare. Dietro al suo cambiamento c’era il potere di una femmina con gli attributi per aver trasformato un pachidermico e molle ragazzo in un mastodontico esemplare di uomo.

«Hai solo questo?», chiese indicando il mio piccolo trolley.

«Solo questo», dissi richiudendolo. Quanto bastava per cinque giorni di soggiorno.

«Benissimo!», allungò una mano a prendere il bagaglio, «Andiamo, ci stanno aspettando».

Lo seguii fuori dal piccolo aeroporto, senza perdermi gli occhi delle donne su di lui e anche al mio culo.

Non indossavo niente di diverso che avrei portato in una giornata normale a Vancouver. Un classico sportivo, ma era lecito chiedersi cosa avessi di speciale per accompagnarmi a un bel figo come Leonard. Niente, solo una prossima parentela, e forse dei capelli viola argentei piuttosto insoliti.

Leonard infilata la valigia nel portabagagli di un lucido e mastodontico pick-up mi aprì lo sportello posteriore sistemandosi poi al volante.

«Ciao!», squittì una ragazza dal sedile passeggero davanti. «Sono Alison».

Immaginai fosse la donna della magia, ma anziché una valchiria del sesso, era una ragazza semplice, direi anonima, la classica fanciulla della porta accanto. Il cerchietto bianco a trattenerle composta e ordinata la folta e lunga chioma bionda accentuava quell’aspetto acqua e sapone. Tuttavia la stretta decisa con cui mi strinse la mano confermò la mia intuizione. Era una femmina energica e risoluta e Leonard di sicuro un uomo fortunato.

«Ungheee!».

Un bambino roseo e tondo pressato in un ovulo nel sedile accanto si stava pasticciando la faccia con uno stecco gelato al cioccolato. Anche lui mi salutò a modo suo imbrattandomi la manica della felpa con la manina appiccicosa e umida di rigurgito primordiale.

«Lui è Randal», disse Alison inginocchiandosi sul sedile per raggiungerlo e pulirlo rapida con una salvietta.

«E’ adorabile!», dissi.

Era sempre bene affermarlo ad alta voce, e soprattutto far seguire il complimento anche da un sorriso incantato sebbene provassi fastidio solo a guardarli. Mi sentivo a disagio accanto, di fronte e dietro a quelle piccole creature umane. Mi saliva una tristezza abissale per quanto fosse già drammaticamente evidente il loro futuro o karma come si usava dire. Erano predestinati agli stessi errori dei progenitori moltiplicati alla seconda, futuri protagonisti di uno spettacolo a ripetersi all’infinito e oltre.

Randal? Randal?

Cercai di ricordare se mia sorella o mia madre mi avessero parlato della sua venuta al mondo. A occhio e croce aveva meno di due anni, ma ero certa che l’avvento del piccolo mi fosse stato comunicato in una delle interminabili video-chiamate serali, ma evidentemente dovevo averla cestinata insieme ad altri mille discorsi o letture di romanzi con cui si alternavano tenendomi compagnia mentre disegnavo la sera. Una connessione virtuale imposta da mia madre per sopperire alla mancanza fisica. Diceva che era un modo per essere con loro e a casa.

«Sono cinque anni che non tornavi…», disse Alison.

Non mi sfuggii la frase spezzata e immaginai conoscesse la mia storia. Era lecito pensare che Leonard le avesse raccontato di me, di una sera d’estate, di un incidente, e degli eventi che sconvolsero la mia esistenza e di tutti quelli accanto alla sottoscritta.

«Sì, cinque anni», dissi facendo finta di non aver colto il sottinteso.

Gli occhi di Leonard incontrarono i miei nello specchietto retrovisore e vidi la tensione e la tristezza mischiarsi insieme. Uno sguardo fin troppo noto alla sottoscritta. Lo sguardo da regalare ad una martire e che mi aspettavo di rivedere lungo la navata della chiesa l’indomani mattina.

Assorbita dallo schienale del morbido sedile di pelle preferii voltare lo sguardo al paesaggio che scivolava oltre il finestrino. Lo riconoscevo, era il panorama di una vita trascorsa ed era stranamente rilassante nonostante mi ricordasse il passato, verso cui stavo viaggiando, che essendo appunto passato sarebbe stato bene che rimanesse tale per divenire ogni giorno sempre più remoto e dimenticarlo del tutto.

Ce la puoi fare!”, ripetei fra me e me, “Ce la puoi fare!”. Era solo un cazzo di matrimonio nell’inferno di Trail. Dovevo soltanto mantenere la salute mentale per cinque giorni e rientrare spedita nel mio universo.

Durante il viaggio in auto il mantra mentale insieme al panorama e agli aggiornamenti di Leonard sul suo lavoro e la vita a Seattle, dove viveva ormai da tre anni, e qualche chiacchiera di reciproca conoscenza con Alison mi distesero dalla morsa allo stomaco aggrappata da quando avevo messo piede a terra.

Vagai con la mente per la restante parte del tragitto a tratti pisolando contagiata da Randal rianimandomi appena scorsi il Rogue River sfilarmi accanto. La linfa dell’Oregon sud-occidentale e scenografia dei momenti più importanti della mia vita. Mi resi conto quanto mi fosse mancato il fiume e già fremevo all’idea di sedermi sul molo di casa a immergere i piedi nella sua corrente fredda scacciapensieri.

Appena l’auto di Leonard svoltò sulla Old Ferry Road la morsa si ripresentò alla bocca dello stomaco. Eravamo a meno di mezzo miglio al punto di arrivo ed il viale fatato, così lo chiamavo da bambina per via dei luccichii tra le fronde del bosco che scintillavano come luci stetoscopiche conduceva ad una sola casa. La residenza Foreman, chiamata dagli abitanti la casa dell’orso per via di una vecchia legenda di cacciatori di pelli che aveva visto protagonista il mio trisavolo. Osservai lambita dai ricordi di infanzia i baci del sole tra il fogliame che un tempo insieme a mia sorella cercavamo di acchiappare con le mani sdraiate nel retro del pick-up di mio padre e avrei voluto avere dieci anni, senza pensieri.

Imboccando l’ultima curva, dietro la quale a breve avrei scorto il focolare domestico trattenni il fiato, e non appena apparve non potei fare a meno di ricordarlo la notte in cui me ne ero andata. Immerso nella neve e illuminato ad intermittenza dalle luci natalizie, molto diverso da come sopraggiunse ai miei occhi in quel momento. Non riuscivo a definire se ci fosse qualcosa di diverso. Nulla al primo sguardo, solo forse più sbiadito rispetto alla diapositiva dei miei ricordi.

«Guarda! Tua madre è sotto il portico, non sta’ più nella pelle», disse Leonard slacciando la cintura. Vidi mamma scendere di tutta fretta le scale per raggiungerci, e d’istinto abbassai lo sguardo alle mie ginocchia scongiurando la strizza da ritorno.

Alison scavalcò il sedile anteriore raggiungendo Randal e distrarlo prima di un sicuro pianto post-arresto motore mentre io… Io restai bloccata con la mano sulla maniglia. Avrei voluto avere qualche minuto per rimanere sola e allenarmi a sfoderare il sorriso a mille denti che mi ero ripromessa in aereo, ma riuscii solo a serrarli per l’ansia. La portiera si spalancò e mia madre si fiondò fin dentro l’abitacolo ad abbracciarmi.

«Abigal, Abigal, Abigal sono così felice di vederti».

«Mamma!», dissi travolta dalla sua effervescenza. Smontai dall’auto con lei incollata. Perquisendomi partendo dai capelli, mi carezzò le braccia, strinse la vita, raccolse le mie mani nelle sue, ispezionò ogni singolo frammento di me da capo a piedi e infine mi strinse a sé in un abbraccio tanto stretto da sbriciolarmi. Soffocata e invasa, trattenni tutta me stessa dal spintonarla via. Avevo un problema con chi mi toccava, e superava quella che io chiamavo “cinesfera vitale”. L’involucro dell’anima per intenderci. Tendevo a reagire d’impulso e in più occasioni mi era capitato di ribellarmi alle invadenze degli estranei alzando direttamente le mani, ma con lei feci appello a tutta la forza di volontà per resistere, non potevo certo atterrare mia madre con un pugno in faccia alla vigilia della cerimonia.

«Ma quanto pesi?», chiese strizzandomi gli avambracci.

La domanda era in realtà un’allusione. Tipico della mia famiglia dove le domande non erano mai domande, ma più spesso affermazioni, moniti e sottintesi.

«In video non sembravi così magra», sottolineò il concetto.

«Mi sono alzata in altezza, ho dieci centimetri in più», dissi mostrandole il tacco, «rende più snelle, mamma».

La risposta non sembrò convincerla, ovviamente. Avevo perso qualcosa come quindici chili nell’arco di cinque anni. Ma non ero malata o altro, piuttosto ero in sovrappeso quando l’ago della bilancia aveva iniziato la corsa in discesa. Mettiamola così.

Leonard nel frattempo depositata la valigia sotto al portico osservava i convenevoli affettuosi/morbosi di mia madre con aria solidale, conscio che ben presto gli sarebbe toccata la stessa sorte di amore materno capace di annientare ogni progresso esistenziale ed evolutivo di se stessi. Non c’era nulla al mondo che riusciva a demolire l’adulto in noi come una madre. In un attimo avevi otto anni e non ne combinavi una giusta.

«Noi andiamo, mia madre ci aspetta per pranzo, ci vediamo domani in chiesa», disse lanciandomi uno sguardo di intesa.

Grazie per il passaggio”.

Bussai al finestrino di Radal e salutai lui e Alison con un bacio al volo e in scacco a mia madre mi diressi verso l’ingresso di casa.

«Sono così felice Abigal. E’ bello averti a casa».

«Lo so, anche per me», mormorai poco convinta.

Sulla porta di ingresso trasalii appena vidi il mio amato Diesel alzarsi dal pavimento del soggiorno e cauto e pesante venirmi incontro schiacciato dall’onere di una vecchiaia che gli imponeva di scandire i passi delle quattro zampe in modo pericolante.

«Ciao Diesel come stai?», mi piegai su di lui per accarezzarlo mentre lui divincolava di pesante felicità ai miei piedi. Non potei fare a meno di pensare che sarebbe potuto morire di gioia in quell’esatto momento. Cercai di calmarlo appoggiando la fronte sul suo testone dal manto più sbiadito, ma l’entusiasmo incontenibile mi obbligò ad inginocchiarmi a terra ed accogliere tutta la sua festa.

Mi era mancato da morire, il mio amato amico e fedele compagno di avventure.

«Gli sei mancata molto…», disse mia madre con tono solenne e mortificante. Corrugai la fronte cogliendo dietro a quelle parole un significato diverso dal mio di sincera malinconia. E in un attimo ero in piedi. La pietà e la compassione che andassero a fare in culo, soprattutto se era mia madre a elargirle.

Con la mano sul trolley ero pronta ad andarmene, ma contai da cinque a uno come mi era stato insegnato e uno volta fatto dissi: «Vado in bagno», fuggendo così al cataclisma del mio umore.

Ce la puoi fare! Abigal ce la puoi fare!”, ripetei a me stessa fino a che chiusi la porta alle spalle. Dovevo anestetizzarmi, avevo bisogno di una dose di ansiolitico. Per fortuna Kiko, socia/amica/sorella/lamiasimbiosi, si era preoccupata di darmi la sua scorta.

Quindici gocce dopo, ero seduta sul bordo della vasca in attesa che la coperta calda avvolgesse e placasse la mente. Pazientai ad occhi chiusi ed era un déjà-vu starmene chiusa in bagno a cercare di ricomporre uno stato mentale instabile. Non prendevo farmaci ormai da quattro anni, da quando il mio sistema antistress era diventato disegnare ad oltranza. Ma anche se in quel momento avessi avuto davanti un foglio bianco e un pennarello non sarebbero stati capaci di controllare l’epilessia emozionale che significava riaffrontare il passato. Ero nel confronto con me stessa, nella mia colpa, la mia frustrazione, la mia rabbia, che per quanto avessi elaborato, fatte mie le varie interpretazioni degli eventi, quei sentimenti erano tatuati nell’anima. Solo quando il pacifico effetto del mio amico liquido addormentò la mente tornai da mia madre che in soggiorno fingeva di sistemare alcune riviste sul tavolino. Ed era come un tempo. Ognuna di noi due in bilico sul ciglio di uno strapiombo una di fronte all’altra. Leggevo nei suoi occhi la pena, e la colpa verso se stessa per non avermi protetto e come uno specchio mi sentivo in altrettanto modo per non averlo fatto io per prima e nel peccato mortale per averle generato un dolore immenso. Un cazzo di circolo vizioso dove per tutte e due era meglio sprofondare nel silenzio, piuttosto che guardarsi a fondo. Era implicita l’amarezza di entrambe, inutile stare a fare ammende, o altro. Il dado era tratto.

«Vieni», disse allungando le mani verso di me. Poggiai le mie nelle sue, più quieta e arrendevole.

«Scusami», disse, «non volevo farti pesare la tua scelta. So quanto è stato difficile per te andartene e stare lontano da noi, ma manchi Abigal, manchi a tutti e vorrei tanto che tornassi non dico per sempre, ma almeno più spesso».

Stava per piangere e se non si tratteneva gli sarei andata dietro come una fontana.

«Lo so mamma, lo so, magari… torno a Natale, questo è un primo passo», dissi senza crederlo realmente. Le regalai la speranza che una madre in fondo non perde mai, ma no, non sarei tornata mai più in quel buco di inferno. Preferivo una città, un luogo dove non mi conosceva nessuno, e a cui ero indifferente.

Dal silenzio in cui piombammo mi resi conto che non c’era altra anima viva in casa oltre a lei e Diesel.

«Dove sono tutti?», chiesi distraendoci dall’emozione di rivederci.

La sceneggiatura del mio ritorno non corrispondeva affatto a come me l’ero immaginata con l’intera squadriglia Foreman ad attendermi sotto il portico.

«Tuo padre e Emily sono al Rogue River Lodge. Emily è sull’orlo di una crisi di nervi», sbuffò roteando gli occhi al cielo. «Ha deciso di cambiare il servizio di piatti all’ultimo momento».

«Non me lo dire… non si abbinavano ai fiori?», chiesi divertita.

Sorrise. «No, non per quello, al colore della seconda portata».

Tipico di mia sorella e mi sorpresi a sorridere in modo naturale e spontaneo, semplicemente ridevo. Leggera, e grazie solo al mio amico Xanax.

«Tuo fratello Jack dovrebbe arrivare per cena».

«Andrew invece?», chiesi.

«Andrew…», sospirò mia madre, «Arriva anche lui per cena. E’ a un seminario dei suoi», disse senza entrare nello specifico e afferrandomi la mano mi trascinò con sé affinché la seguissi lungo le scale. «Vieni, ti faccio vedere la tua stanza».

L’assecondai senza obiettare. In realtà non era proprio la mia stanza quella in cui ci stavamo dirigendo, bensì il sottotetto riadattato per l’occasione del mio rientro a camera da letto. La mia camera ormai apparteneva a mia sorella per intero. Mentre la scala si apriva come una molla davanti a noi una accanto all’altra nel corridoio rimpiansi di non aver preso una stanza in un hotel. Mia madre aveva insistito che soggiornassi in casa accampando un discorso sull’importanza delle tradizioni di famiglia. Era l’ultima cena prima che Emily, la più piccola di quattro figli lasciasse l’ovile, e per l’occasione ci voleva riuniti sotto lo stesso tetto. Purtroppo aveva sempre avuto una concezione della famiglia da romanzo western tanto che la sua diapositiva fiabesca di focolare domestico si ispirava ad una vecchia serie televisiva che era solita guardare da ragazzina e che vedeva una amabile famiglia radunarsi ogni sera a tavola, e dopo la preghiera a capi chini e mani giunte, oltre a cibarsi con ricchi piatti nonostante persistesse una perenne carestia, tutti felici dialogavano e soprattutto ascoltavano i saggi consigli del padre e della madre. E ovviamente la domenica si sorbivano la messa con il sermone del pastore sempre giulivo. Ecco, mia madre voleva essere come la signora Ingalls di quella vecchia serie televisiva, La casa nella prateria. E lo era sia per bellezza che volontà materna, ma aveva a che fare con una realtà non propriamente simile allo stereotipo televisivo.

A tavola noi Foreman era più facile che litigassimo, che Emily gridasse, mio fratello Jack sputasse nel piatto e Andrew contasse i piselli perduto nelle sue fantasie ancestrali. E dei saggi discorsi paterni si erano sentite solo imprecazioni, mentre Diesel abbaiava. E la chiesa… per tradizione ci aveva visto arrivare sempre in ritardo. Eravamo i Foreman, degli incazzati e schizzati cronici che vivevano nei boschi.

Inerpicata me stessa per la scaletta a scomparsa, sorpresa mi impalai in mezzo al sottotetto che non era più un purgatorio di roba abbandonata. Non so che fine avessero fatto le chincaglierie del passato, ma di loro non c’era alcuna traccia nel bellissimo sottotetto ritinteggiato per intero di bianco travi in legno di quercia al pavimento lucidate a nuovo e una mobilia su misura sicuramente realizzata da mio padre. Il letto, candido e morbido solo alla vista era sotto il lucernario da cui in inverno mio padre ci faceva vedere le costellazioni con il suo telescopio autocostruito.

«Il tuo vestito da damigella è in camera mia», disse mia madre stringendomi le mani in vita con espressione incerta, «forse è meglio se lo provi subito, non sono sicura ti vada bene. Sei troppo magra. Dovrò fare delle messe a punto».

«Non vedo l’ora», mormorai piegandomi alla finestra a guardare il panorama sul retro della casa. Vidi il fiume e sentii il suo richiamo, ma venne offuscato dal sibilo della cerniera della valigia alle mie spalle. Mi precipitai sulle mani di mia madre stoppando ogni sua premurosa iniziativa.

«Mamma, lascia stare, faccio da sola», le intimai.

Mi pentii subito per aver fermato in modo tanto nervoso le sue dolci intenzioni. Avrei voluto essere più gentile, accomodante, figlia devota, ma ero fatta così, la difesa mi portava a rifiutare le attenzioni. Non riuscivo a fare a meno di proteggermi da chi avrebbe voluto aiutarmi e non avevo il controllo su me stessa. Meglio tenersi al sicuro, saldi nella mente, osservare il mondo come un film piuttosto che cadere nelle emozioni, questa ormai la mia filosofia. La mia vita era disegnare, ed era tra le tracce dei colori e dei contorni stilizzati che vivevo al massimo delle mie potenzialità, la realtà non mi interessava granché.

«Va bene tesoro», disse arricciando tra le dite una ciocca dei miei capelli. «Mi piace il colore, è moderno», sorrise compiaciuta, «chissà cosa diranno in città… poco male, avranno altro da aggiungere all’elenco di follie dei Foreman».

«Lungi da me togliere questo divertimento», dissi ridendo.

Mamma scosse la testa arrendevole.

«Sei diventata grande… Abigal!», disse con una punta di amarezza, «E bella», aggiunse al concetto. Annuii senza crederle. Il cuore delle madri non è mai obiettivo.

Invece tra noi due chi era veramente bella era senza ombra di dubbio lei, con i suoi occhi verdi e bronzei ed impressi in me, e sebbene i miei fossero più cupi e sfuggenti i suoi erano un pozzo di dolcezza e vivacità e in quel momento erano di nuovo sul punto di straripare in un onda di lacrime.

Ce la puoi fare! Ce la puoi fare! Ce la puoi fare!

«Va tutto bene mamma», le dissi, «per favore non piangere».

Lei annuì serrando le labbra poi scosse il corpo come se shakerando se stessa scacciasse il demone del rimpianto.

«Scendiamo, ho preparato la crostata di mirtilli che ti piace tanto».

«Prima disfo la valigia, mamma, e poi scendo», dissi decisa. Ed era sottinteso che volevo starmene sola.

«Cinque minuti, mi cambio e poi scendo. Poi facciamo la prova vestito», aggiunsi subito per stemperare la delusione che avevo visto affacciarsi sul suo bel viso.

«Va bene, ti aspetto in cucina».

Finalmente sola, liberai un sospiro trattenuto da quando Leonard aveva spento il motore dell’auto. Levai le scarpe e mi buttai sul letto per chiamare Kiko. Avevamo condiviso per due anni la stanza al riformatorio della Contea di Jackson e per forze di cose eravamo diventate la forza l’una dell’altra. Indivisibili e inscindibili. Tra noi un sodalizio di anima protrattosi anche una volta uscite e tornate nel mondo reale. Quando me ne ero andata da Trail l’avevo raggiunta a Vancouver dove si era trasferita da pochi mesi e insieme ci eravamo ricostruite una vita libere dai nostri incidenti di percorso. Da tre anni avevamo un commercio elettronico di magliette e accessori dipinti a mano. Lei si occupava della gestione informatica e contabile io disegnavo che era quanto sapevo fare. Nell’ultimo anno gli affari erano andati piuttosto bene tanto da aver deciso di fare il grande salto e trasferirci a New York per aprire un negozio su strada con vendita al dettaglio. Eravamo elettrizzate all’idea e proprio quella mattina Kiko aveva un appuntamento per firmare il compromesso e desideravo sapere come fosse andata.

Al suo ciao seguì un sospiro come se si stesse stirando.

«Sono arrivata», dissi.

«Bene…»

Attimi di silenzio in cui distinsi chiaramente della musica in sottofondo e uno struscio sospetto…

«Cosa stai facendo?», chiesi.

«Immaginalo…».

«Ma perché cazzo rispondi? Chiamami dopo stronza!», sbraitai e chiusi la chiamata.

Kiko aveva la brutta abitudine di rispondere in quelli che si potevano definire i suoi momenti intimi. Non solo quando era in bagno per faccende fisiologiche, che era il meno, ma più spesso quando stava facendo sesso o masturbandosi, tra l’altro accettava la chiamata senza interrompere l’attività. Riteneva potesse essere urgente e non voleva legare il senso di colpa a quello che notoriamente le piaceva fare.

Decisi di disfare la valigia e nell’aprire le ante di un piccolo armadio con sorpresa trovai appese le mie vecchie magliette dipinte a mano. Mia madre le aveva conservate tutte. Ne sfilai una a caso e osservai un Ironman in tre dimensioni. Scartabellai tra le altre fino a trovare la mia preferita, quella con l’Uomo Ragno e Mary Jane in un bacio indimenticabile. Levai la pellicola di cellophane con cui era custodita e la distesi sul letto. I colori erano ancora accesi e per nulla seccati. Si erano preservati sicuramente grazie alle cure di mia madre che doveva averla lavata di recente perché si era appena sprigionato il profumo inconfondibile del suo ammorbidente segreto per tutto il sottotetto.

Ricordavo perfettamente quando l’avevo dipinta dodici anni prima.

Una sera d’estate con un cuore ancora puro e innocente. Ne toccai il tessuto, con le dita sfiorai i contorni del disegno e in un attimo attraversai lo spazio tempo approdando dentro il ricordo di quel lontano momento…

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Capitolo 2

Dodici anni prima

«Dove vai?», chiede Emily sdraiata sul divano davanti alla televisione.

«Vado a disegnare, inizio il progetto estivo per il corso di arte».

«Ma la scuola è finita da cinque giorni!».

Scrollai le spalle. «Mi porto avanti».

Emily, disinteressata, torna a guardare la tv.

Dal secondo semestre frequento il corso extra-scolastico d’arte del professor Fillebrown e lo faccio per passione non per dovere o aggiungere crediti scolastici. Mi sono iscritta prevalentemente per lui perché è un genio, secondo me, un vero outsider dell’arte che in passato ha avuto un discreto successo di critica a New York e soprattutto perché è un figo da paura. Me lo ha chiesto lui di iscrivermi dopo aver visto i miei disegni alla mostra di beneficenza organizzata dalla Parrocchia. Dice che ho talento, ma io non ne sono sicura. I quadri esposti erano dipinti con colori ad olio e io sono una fan della pittura classica, tipo acquarello o roba del genere. Prediligo i semplici pennarelli. Classici pennarelli al Pantone. A Natale ho ricevuto un kit di centocinquanta gradazioni. Una favola di regalo. Ho uno stile tutto mio nel disegno, un po’ caricaturale, ma sono eccezionale, e lo dico vantandomi, nel colorare e nelle sfumature.

Il progetto estivo da presentare in autunno è un paesaggio. Non mi piace molto l’idea, ma devo farlo, sono costretta ad imparare la tecnica classica per poter consolidare la cassetta degli attrezzi, così dice Fillebrown. Un po’ come imparare la grammatica per saper scrivere, anche se… penso che lo stile viaggi fuori dalle regole. Solo lasciandosi liberi di sperimentare è possibile sviluppare davvero la propria espressione. Non a caso i veri artisti sono quelli ad aver usato il proprio ingenio e non tanto rigide tecniche per innovarsi. Questo è il mio parere, ma sono diligente, e seguo il precetto del professor e per il momento riproduco la natura. Dice che canalizzare il fuori sulla carta ci aiuterà a risvegliare il contatto con la bellezza e cogliere le verità nascoste. E’ anche un filosofo Fillebrown e a me piace perché è l’insegnante più moderno del clan del corpo docenti di Shady Cove. Oggi vado a fare uno scorcio del fiume, dove so per certo troverò una prospettiva perfetta.

La puzza che mi avvolge appena entro in cucina è di mio fratello Jack. E’ insieme a Andrew, l’altro mio fratello e sono seduti al tavolo a scrivere qualcosa su un foglio. Getto un’occhiata e leggo delle parole sconclusionate. Di recente hanno formato una rock band e trascorrono il pomeriggio a suonare nel capanno del passatempo di papà. Sono in tre al momento. Jack alla batteria, Andrew al sintonizzatore e Rey, un loro amico, alla chitarra. Hanno messo un annuncio per un cantante, ma non si è presentato ancora nessuno. Frattanto si portano avanti scrivendo testi ridicoli di amori che non hanno.

«Puzzi!», dico a Jack buttando sul tavolo la confezione di pane, formaggio e tacchino.

«Fottiti!», ringhia.

«Guarda che se torna papà e sente questa puzza ti butta nel fiume».

«Che problemi hai Abigal? E’ odore di maschio».

«Non penso proprio, Andrew non puzza come te».

«E’ la batteria a farmi sudare, non è facile», dice scontroso.

«Lo capisco, ma se la suoni con la felpa è ovvio che sudi, mettiti una canottiera».

«Abigal hai finito, neanche mamma è così rompicoglioni».

Io e Andrew ci sorridiamo a vicenda. Mi diverto a dar fastidio a mio fratello Jack. Non so perché, ma adoro vederlo arrabbiarsi. E’ uno che reagisce d’impulso e si mette subito sulla difensiva. E’ del segno del Leone e come si dice, ti mangia in un sol boccone. E’ il più grande di noi anche se nessuno può dirsi più adulto dell’altro. Abbiamo una differenza di età di un anno ciascuno. Jack ha sedici anni, poi c’è Andrew, io di quattordici e Emily di dodici e mezzo. Venuti al mondo uno dietro l’altro. Un desiderio dei miei genitori avere tanti figli coetanei. Gli piaceva l’idea che ci saremmo presi cura l’uno dell’altro e infatti era proprio così, sapevamo stare soli tra di noi.

«Volete un sandwich?», chiedo pur sapendo la risposta.

Annuiscono tutti e due senza alzare gli occhi dal foglio.

«Emily vuoi un sandwich?», urlo.

«No, mi porti una mela per favore!?».

Preparo i panini al tacchino e formaggio per tre, e uno lo infilo nello zaino insieme a una banana. Getto nelle fauci di Diesel una fetta di tacchino e porto una mela a mia sorella. Fatto il dovere di vice-mamma sono fuori dalla porta di casa.

«Ciao dove vai?».

Il cuore tonfa a terra.

Ho davanti Rey sorridente e con quell’aria gentile e introversa che lo rende fin troppo interessante. Deve essere venuto a suonare. Un rigolo di sudore parte dal collo e attraversa la schiena. Ho un problema con lui. Io non riesco a parlargli. Se dico «ciao», parte la ola.

E’ soggezione, ma non ne capisco il motivo. Parlare con lui significa sudare e in questo esatto momento sento la maglietta appiccicarsi sulla schiena senza aver ancora risposto alla domanda.

«Fiume vado, sono fratelli cucina», rispondo più o meno. Il senso è chiaro. Conto alla rovescia da cinque a ritroso, e all’ultimo secondo prendo il via verso il fiume.

«Ciao», dico allontanandomi senza più degnarlo di uno sguardo.

Non ha nulla di speciale Rey, ben inteso è carino, niente in contrario, a scuola ha il suo seguito di occhi desiderosi, ma non mi interessa, non in quel senso, è amico dei miei fratelli e sicuramente fa schifo come loro dietro l’apparenza da bravo ragazzo. Resta il fatto che però a me agita e scombussola parecchio. Sono un po’ scocciata che si sia unito alla band perché ogni giorno mi trovo nella condizione di stupida balbuziente a casa mia. Il mio territorio.

Cammino lungo la sponda del fiume e vago con gli occhi in cerca di una buona veduta finché, dopo una quarantina di minuti, giungo ad una insenatura che sembra perfetta per il disegno che ho in mente. Dopo un’attenta analisi della prospettiva mi siedo a terra sotto ad una grande quercia a gambe incrociate e dallo zaino recupero l’album da disegno insieme all’astuccio delle matite che dispongo una a una davanti ai miei piedi. Non mi piacciono le matite, ma devo prenderne dimestichezza. Imparare anche a sfumare.

Ho notato che disegno meglio quando ascolto la musica perché il tratto risulta più leggero. Sono meno concentrata nella tecnica, ma più sull’emotività del gesto e la mano viaggia da sola. Non c’è sforzo se la musica mi avvolge. Per realizzare questo particolare disegno scelgo dalla playlist una generica stazione Essentil Indie.

Il primo brano è dei Mazzy Star che accolgo come segno del destino. Li adoro, e adoro Faide into you che seleziono come motivo a ripetizione per fare il primo bozzetto. E’ perfetta per accompagnarmi nel paesaggio nostalgico e malinconico che intendo rappresentare. Mi immergo nella musica e nel tratto della matita e piano piano il tempo sembra rallentare e perdere ogni significato. Sono nel mio universo, estraniata, lontana, isolata, come un buddhista in cima al monte sprofondato nel contatto di sé, io sono altrettanto persa in trame infinite e luoghi incontaminati. Questa è l’arte. Estraniarsi dal mondo e crearne uno tutto nuovo. Ci voglio vivere dentro, qui sono io l’architetto, il creatore. Scelgo, voglio, realizzo, cancello, riprendo e dirigo.

Lo schizzo iniziale ha ormai preso forma, inizio ad ombreggiare per accentuarlo e mentre la sfumatura prende vita penso che disegnare è quello che voglio fare per il resto della vita. Illustrare la bellezza intorno a me e riprodurla su un foglio di carta. Ha ragione il professor Fillebrown. Ritrarre è un mezzo, un canale espressivo, e amplia la prospettiva delle emozioni.

Non so quanto tempo è trascorso, parecchio, perché la luce è cambiata. Seguo il tratteggio tra il foglio e il panorama che la natura mi rimanda alternando lo sguardo dall’uno all’altro fino a che il viso di Rey appare nella prospettiva. E’ a dieci centimetri dal mio ed è piegato sulle ginocchia.

Sono talmente assorta da non capire subito se è davvero reale il suo viso quello davanti ai miei occhi o meno. Mi levo una cuffia incerta e sbatto le palpebre un paio di volte come volessi accendere la luce sul mondo vero.

«Te l’hanno detto che non si ascolta la musica quando si gira per i boschi?», chiede con aria preoccupata o così sembra, «Dovresti stare attenta, potrebbero esserci degli orsi in giro».

«Disegno!», argomento al meglio delle mie possibilità anche se vorrei sottolineare che gli orsi non sono certo in questa zona, ma se ne stanno più a est verso il monte McLoughlin dove il torrente gli offre cibo a volontà.

«Cosa ascolti?», chiede afferrando l’auricolare libera portandosela al suo orecchio.

Fade into you
Strange you never knew
Fade into you
I think it’s strange you never knew

Sono completamente paralizzata e incantata dalle sue labbra. Potrei replicarle in un disegno anche senza bisogno di vederle per quanto si sono appena scolpite nel cervello o nell’animo come si legge in certi libri. Ho la certezza che per il resto della vita cercherò per sempre e solo queste labbra. Ed è tutto chiaro da dove origina il mio disagio con lui. La chiamano chimica. Ne ho sentito parlare nelle chiacchiere di scuola. E’ una reazione dell’olfatto. Lui non puzza come mio fratello, il suo odore è buono. Lo avverto perché è fin troppo vicino. Ha un profumo per niente inedito, evoca qualcosa nel buio della mente. Avete presente quando si dice qualcosa dentro di sé per dire che c’è qualcosa che ti appartiene e conosci per ragioni oltre la logica? Ecco, il suo odore per me è così, qualcosa che sa di casa.

La distanza è tanto minima che un’audacia improvvisa in me disintegra i dieci centimetri a separarmi dalle sue labbra carnose. Ho spinto la mia bocca contro la sua e lui ha risposto afferrando la testa e assaggiandomi in un bacio delicato. Ho socchiuso le labbra e la sua lingua le ha attraversate trovando la mia. Il tocco è da vertigine e mi sento precipitare come la matita che è appena caduta dalle mie mani. E’ un bacio breve, ma intenso. Il primo della mia vita. Intontita dal mancamento riapro gli occhi e il viso di Rey non è più davanti al mio. Alzo la testa e lo vedo in piedi con aria incerta o forse più angustiata. Non lo so, non capisco, e sento l’imbarazzo cascarmi addosso. Abbasso lo sguardo alle mie matite, sono troppo turbata dalla mia improvvisa temerarietà e vorrei sotterrarmi. Cosa mi ha spinto a dargli un bacio? Ho il cuore in gola per lo sgomento di me, ma poi Rey si piega di nuovo sulle ginocchia e le sue labbra tornano alle mie. Un bacio più lungo questa volta. Siamo come due pesci pulitori appiccicati uno all’altro. Ho la faccia impiastricciata delle nostre salive. Rey mi spinge a terra stendendosi sopra di me. Struscia sui fianchi con il bacino. Non sono sprovveduta, i video porno con due fratelli sono all’ordine del giorno in casa Foreman come la puzza del loro testosterone che aleggia nelle loro camere. Sento il suo pene gonfio e duro. Sta per accadere, penso, mentre la sua mano si avventura sotto la maglietta e afferra un seno forte quasi a strizzarlo. Mi bacia il collo e i brividi sono corrente elettrica. Le mie mani non sanno dove andare, e gli volano addosso frenetiche per abbracciarlo e alzargli la maglietta. Rey se la toglie e io levo la mia e la nostra pelle si tocca. E’ calda e liscia la sua e la mia credo faccia scintille perché ho la pelle d’oca. Abbassa lo coppa del reggiseno e succhia un capezzolo mentre si sbottona i pantaloni. Sono eccitata e travolta da tutte le sensazioni che fibrillano la pelle e la mente. E non so dargli un nome per quanto nuove. Sono baci convulsi i nostri, bagnati, di scontri dentali ma pieni delle nostre lingue che cercano di prendere confidenza tra loro. Rey abbassa la zip dei miei pantaloncini, si inginocchia tra le mie gambe e li fa scivolare fino a sfilarmeli del tutto. Prende tra le dita l’elastico ai bordi delle mutandine e prima di abbassarli mi bacia il ventre e appoggia la fronte sopra. E tutto è fermo. Io sono ferma, lui anche. Solo respiri profondi, l’acqua del fiume, il fruscio delle fronde, e parlottio di uccelli.

«Posso?», sussurra.

Infilo le dita a mani piene tra i suoi capelli e sollevo la sua testa affinché possa vederlo negli occhi. E sono occhi sinceri in cui mi perdo.

«Sì», rispondo e il respiro si appiattisce appena le dita spostano l’elastico degli slip. Chiudo gli occhi. Ho la bocca asciutta per quanto il respiro è affannato e spaventato ed eccitato e non so più che pensare se non che un ragazzo mi sta togliendo le mutandine alla luce del sole. Ho il cuore che vuole uscire dal corpo. Fuggire dal vortice di emozioni così nuove. Ci sono mille pensieri che si accavallano e ne sono tramortita.

Sento le brezza dell’aria tra le cosce e poi la sua mano appoggiarsi sopra. Sono umida. Un’invasione improvvisa di un dito mi fa inarcare la schiena e non riesco a trattenere un gemito. Mi confonde sentirlo, è un suono intimo del tutto nuovo. Non capisco neppure se è davvero mio.

Rey si stende sopra di me e lo accolgo divaricando le gambe. Ci baciamo quasi a mangiarci. Le labbra umide, ormai gonfie per come si cercano e si mordono, denti siamo tutti e due assorbiti dalla confusione che aumenta come l’agitazione.

Avverto la punta del suo pene cercare la breccia alla regione più intima di me. Deve averla trovata, percepisco la pressione contro la natura del mio imene. Lento si fa spazio, ed è pressante, invadente, non lascia scampo, ma allo stesso tempo è gentile nel suo modo di accomodarsi. Sono sovrastata dal suo corpo e da tutto. Lo abbraccio e guardo le fronde degli alberi sopra le nostre teste. Di nuovo spinge un poco di più, fino ad arrivare in fondo con una unica spinta finale. Un pizzicore e un calore liquido mi cola tra le gambe.

Non c’è più resistenza a contrastarci. Rey diventa più impellente e il respiro più affannato di ansimi e gemiti rochi che vanno di pari passo con i miei incontrollabili. Caschiamo dentro i nostri occhi, fronte a fronte rubandoci i soffi dei nostri aliti. Le spinte, più esigenti, le accolgo muovendo il bacino con lui. E’ tutto naturale, viene spontaneo ed è strano che lo sia. Nessuno te lo insegna veramente. Lo studi, lo guardi in internet, ma poi tutto si riduce ad un fenomeno primordiale. E’ innato in noi come il respirare, il battere del cuore, il piangere. Anche il sesso lo è. Gli ansimi di Rey diventano più rauchi e profondi come altrettanto i miei a confondermi per quanto incontrollabili. All’improvviso scivola fuori da me lasciandomi con il respiro spezzato e un piacere dissolto sul più bello. E il cielo è roseo mentre lui si accascia accanto. Mi bacia il collo e carezza la guancia mentre guardo i suoi occhi tanto vicini da vederci dentro altri universi. Lo abbraccio contenta di essermi tolta un cruccio tra l’oggi e il domani in un giorno d’estate accanto al Rogue con un ragazzo carino e gentile senza aver capito fino in fondo cosa sia successo davvero e cosa mi abbia spinto a fare quello che ho appena fatto.

Perdere la verginità sulla sponda di un fiume.

Ma ne sono felice…

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Festa del Romance Italiano

Festa del Romance Italiano

Sono davvero molto felice di aver partecipato al primo Festival Romance Italiano 2019 in qualità di “madrina”. Ho trascorso delle ore davvero speciali in compagnia dello staff del Rumore dei Libri, Opinioni Librose, Romanticamente Fantasy, e Libri Magnetici. Sono stata coccolata e protetta da ragazze deliziose e appassionate, soprannominate per l’occasione “fate madrine”, che ringrazio con tutto il cuore per l’affetto ricevuto e la grande professionalità dimostrata. Già mi mancano…

Ovviamente ringrazio Lidia Ottelli, e le auguro davvero il meglio di tutto. Brava, coraggiosa, senza se e senza ma. Grazie per avermi tirato fuori dalla tana e aver dato voce al Romance tutto italiano.
Secondo il programma, e per la mia poca attitudine sociale, sarei dovuta rimanere solo qualche ora, ma non volevo andarmene, era troppo difficile abbandonare il simpatico gruppo dello staff, e poi ero davvero affascinata dal fenomeno di una sala gremita di lettrici e autrici tutte sorrisi, abbracci e gioia allo stato puro.

Solo cinque anni prima era inimmaginabile un evento del genere, solo cinque anni prima molte delle autrici presenti avevano solo un sogno nel cassetto, solo cinque anni prima le possibilità di esordire erano limitate ai circuiti tradizionali… Solo cinque anni prima leggere romance era da “sfigate”. Pensieri da nonna, lo so, ma un dato di fatto di fronte all’atmosfera di festa che ho visto.

Ho provato a riflettere sul futuro e sull’evoluzione del settore, ma è difficile prevederne gli sviluppi quando è la passione a muovere le cose. Ѐ un po’ come la teoria del caos. Sensibilità alle condizioni iniziali, imprevedibilità, evoluzione. Credo che il romance italiano viva proprio in questa teoria. Viaggia su binari singolari, e questo a me piace molto perché non si può imbrigliare con tanta facilità. Sono veramente felice per tutte le lettrici, le autrici e lo staff per il risultato di un evento che è in assoluto un punto di partenza per l’evoluzione dell’editoria self e tradizionale. Sono sicura che il futuro porterà nuove possibilità, nuovi canali, nuovi fenomeni editoriali… E vedremo!

Detto questo, voglio ringraziare anche le bellissime donne che sono passate a trovarmi. Ho avuto modo di incontrare lettrici della prima guardia, ma preferisco definirle “amiche di anima”, di cui conservo sempre un ricordo indelebile in me. Il loro incoraggiamento nel lontano 2014, ancora vivo dopo cinque anni, mi ha riportato, nel 2019, a ringraziarle con abbracci veri per l’immenso affetto che mi hanno regalato e che tutt’oggi riesce sempre a mettermi in crisi. Vi devo tantissimo, davvero tantissimo. Non ho mai ricevuto tanto amore disinteressato come da parte vostra. Ed è unico e vero. Lo so, dovrei renderlo con qualcosa, magari di scritto ma sapete come sono: introversa e autogiudicante senza se e senza ma. So che comprendete! Abbiate pazienza e magari vi regalo qualcosa.

Siete amore puro, non è un caso che amate il Romance, non potrebbe essere altrimenti. Siete sognatrici, anime belle e rare. Felice di avervi conosciute.
Infine, spero che la passione, l’entusiasmo e la voglia di sognare ed essere, persistano anche nelle prossime edizioni del Festival e che tali peculiarità siano tanto forti da fare scudo a qualsiasi intromissione esterna.

Ѐ una sorta di club “felice” quello del Romance italiano, che crescerà, evolverà e si trasformerà.

L’augurio che faccio è che il sogno non finisca, e ovviamente cito il mio motto portafortuna che vi assicuro funziona sempre: “Se smetti di sognare allora stai dormendo!”.

Sara Tessa

P.S. Nella foto sono quella in centro che guarda altrove convinta fosse un altro il fotografo… 🙂

Una specie di madrina :-)

Una specie di madrina :-)

Oggi ho accettato l’invito di una cara blogger… Parteciperò al prossimo Festival Romance Italiano a Milano, per qualche ora. Il fatto è che ho accettato senza ben sapere a cosa andrò incontro. Cioè, parliamoci chiaro! Non scrivo da tempo, sono l’antitesi della socialità e sono fuori dalle dinamiche editoriali self e tradizionali da un po’. Non ho idea a chi possa interessare la mia presenza… comunque ci sarò.

La verità però, è che sarei andata comunque al Festival Romance Italiano, ovviamente come visitatrice, perché ancora prima che venissi contattata dalla cara e ostinata Lidia avevo già letto da qualche parte dell’evento, ed ero molto interessata e al tempo stesso felice che una manifestazione del genere approdasse a Milano, ma ancor di più, per la presenza esclusiva di solo autrici italiane. E volevo proprio vederle tutte queste autrici che in questi anni si sono divertite nella scrittura di romance. Lo so, è una visione da “anziane”, ma in fondo un po’ mi sento tale. Per una strana congiuntura astrale faccio parte di quelle “apripista” del selfpublishing e compagnia bella che, nel bene e nel male, hanno contribuito a sbloccare un settore editoriale in stallo, e ben venga…

Pertanto, quando Lidia mi ha contattato, se in un primo momento ho tergiversato per tutte le mie mille paure, alla fine ho accettato non tanto per me, ma per le splendide, avventurose e audaci organizzatrici nonché partecipanti impegnate in questo progetto.

Mi è stato davvero difficile negarmi davanti a chi ci crede profondamente, e che in passato mi ha pure sostenuta senza sapere nemmeno chi fossi. Insomma, credo sia giusto rendere l’energia che un tempo mi venne donata, perché a dispetto di chi sono, e come mi sento in pubblico (tragicamente impaurita), trovo l’iniziativa di un Festival tutto italiano davvero un evento coraggioso e ci credo a prescindere da me.

Tutto qui. Ci vediamo a giugno!

Ciaooo!

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