On the longest day
The vanishing mind
Knows not when the day ends
Who could care for you
Who could understand
In the room sealed shut
You’re not what you were
Sulle note della malinconica The vanishing mind osservai una coccinella adagiarsi sul sottile stelo di una primula. In un primo momento fui tentata di allungare la mano ed accoglierla sulle dita, ma appena mi resi conto del sentimento di speranza legato al quel gesto fermai la mia volontà.
Nel microcosmo di altre specie insettivore, la coccinella con il suo aspetto e la singolare forma aveva la capacità di richiamare in noi esseri umani, appartenenti invece al macrocosmo delle cazzate mentali, un senso di simpatia e dolcezza. Questi sentimenti erano per lo più legati alle legende a lei dedicate e tramandate dalla fantasia popolare che spesso le attribuivano il potere della fortuna e dell’amore dietro l’angolo. Tutte storie di falsa speranza. Favole insegnate da tempi immemori atte a plagiare le menti. Pensieri magici per dare un senso superiore agli eventi e alle cose dove in fondo non esistevano. Nella mia vita, di coccinelle ne avevo liberate a volontà e sulle mie mani se ne erano posate altrettante, ma le profezie di amori e buona fortuna non si erano avverate.
In pochi però conoscevano la vera natura di quel grazioso insetto. Sotto quella livrea tondeggiante, e a pois neri si celava un’anima predatrice non da poco. Quei portafortuna volanti, nella loro vera natura, erano tra i più attivi predatori del mondo insettivoro, tanto voraci, al punto da essere cannibali tra loro. E a pensarci bene, non erano molto differenti dagli altri esseri viventi presenti su questo pianeta. Anche loro con una bella maschera di apparenza. A misura di innocenza e bontà, dietro la quale però nascondevano un famelico spirito di sopravvivenza.
So much sweeter now
That there’s nothing left to
Remember you
It’s what brought you here
It’s what keeps you here
Già, pensai ascoltando le parole vibrate dalla voce calda e confortante dei Calexico. Cosa mi aveva portato qui? E cosa mi teneva ancora qui, sdraiata sulla terra di verdi e rigogliose colline a mirare il cielo azzurro?
Your smile brings me back
To the longest day
The vanishing mind
Ecco la risposta. Un sorriso, ormai sfumato, che non era più per me… e a dire il vero, a distanza di anni, era piuttosto evidente che mai lo era stato per davvero.
Mi tolsi gli auricolari per ascoltare suoni più reali riportando i pensieri in eden meno immaginari ed esistenziali.
“Buon lavoro!”, sussurrai alla coccinella ormai giunta in cima al crinale della primula. Una volta sulle mie gambe, mi stirai un poco e osservai il paradiso in terra sul quale mi trovavo. Inspirai a pieni polmoni l’aria fresca di una nuova primavera ormai alle porte e in un attimo ero di nuovo nel mio emisfero sinistro, quello razionale, lontana dai ricordi e pronta a tornare al mio rifugio nel bosco. Raccolsi il fucile da terra e di nuovo spensierata mi voltai per raggiungere il sentiero, ma nemmeno un passo e…
Cazzo no, pensai appena il mio sguardo individuò il vecchio Patrick insieme a quello che io avevo soprannominato Sventura. Un meticcio pulcioso, frutto di variopinte razze canine che nei suoi otto anni di vita ne aveva vissute di tutti i colori e nonostante le innumerevoli sfighe e l’esperienza acquisita riusciva sempre a cacciarsi nei guai. Sarei ripiombata a terra nascondendomi tra i fili alti dell’erba pur di far perdere le mie tracce, ma ormai era tardi. Patrick mi aveva individuata. Sventolava il suo fucile per richiamare la mia attenzione. Un gesto intimidatorio al di fuori dell’Alaska, ma sorprendentemente amichevole in questo Stato di animali selvaggi alla stato libero.
“Amber”, urlò Patrick.
Alzai il mio fucile in segno di saluto e attesi che mi raggiungesse già rassegnata al dialogo prosciugante da “qualunquemente” mi avrebbe elargito a breve. Non era antipatico il vecchio Patrick, ma come tutti gli esseri viventi, soprattutto di una certa età, e residenti nella sperduta radura del Nord più Nord dell’America, solo come un cane e con un cane al seguito, tendeva a ripetersi nei concetti e pensieri. Una condizione comune al genere umano, ma che in lui degenerava nell’agonia della reminiscenza. Appena trovava qualcuno (in)disposto ad ascoltarlo, e nello specifico la sottoscritta, altro essere vivente presente nell’arco di quindici miglia, apriva il file delle memorie passate e via… Ti sbrodolava una litania di ricordi a partire dai tempi in cui era venuto al mondo sul tavolo della cucina, lo stesso su cui ancora oggi mangiava o leggeva il giornale locale. Personalmente sopportavo a malapena chi ogni due per tre mi riproponeva i suoi ricordi riportandoli al presente. C’era qualcosa di irrisolto nel raccontare il proprio passato e spesso avevo l’impressione che la bobina della memoria avesse come obiettivo dare conferma alla propria esistenza. Un modo per riconciliarsi con chi erano e rialzare l’asticella della propria autostima. Quel tipo di rievocazioni personali avevano la capacità di annientarmi. Non amavo pensare al mio passato, o arrovellarmici dentro pertanto ascoltare estranei disquisire sul proprio mi costringeva a resistere per non mandarli al diavolo. Era una perdita di tempo, almeno per me, ripensare al passato. Tanto le tracce erano dentro di noi. Indelebili. Te le portavi addosso anche senza dover per forza occupare la mente nel ricordare scene di vita vissuta come fossero quelle di un film visto al cinema e che appartenevano poi solo a una sequenza di fotogrammi sui quali mettevi didascalie a tuo piacimento ingannandoti e ingannando gli altri del fatto che in fondo eri una brava persona, intelligente, per bene, o vittima delle circostanze e cos’altro pensavi di essere e che il mondo era il contrario di te. Per come la vedevo, per me l’essere umano era solo un miscuglio di cellule replicate di generazione in generazione e nel tempo avevano prodotto un dna portatore di altri individui irrisolti, ovviamente nostri predecessori, che ogni tanto si riattivavano nei momenti di debolezza per romperti i coglioni. Un inconscio/anima/spirito o come lo si voleva definire composto di mille voci che si risvegliavano alternandosi o tutte insieme. Paure e deliri altrui capaci di pilotarti nei momenti di debolezza. Per questo, un giorno mi ero detta che data l’impossibilità di modificare quel dna di personaggi sconosciuti e allo stesso tempo conosciuti forse era meglio vivere a livello base. Direi l’essenziale. Mangiare, respirare, dormire, camminare e soprattutto pensare al minimo. Una sorta di dieta umana per concedere tempo a quelle cellule irrisolte di trovare la pace o almeno imparare a starsene zitte e raccolte, tutte unite dal silenzio della natura in cui avevo deciso di vivere. Trasferirmi in Alaska mi era sembrata a suo tempo la scelta migliore che potessi fare. Non c’era stato nulla a tenermi legata alla mia città natia se non la speranza che qualcosa prima o poi sarebbe cambiato. Ed era stata proprio quella speranza perduta a spingermi a mollare tutto. Per mio fratello era stata una fuga, per mio padre un atto di codardia, per mia sorella una follia, per zia Wendy il modo migliore per ritrovarmi e per mia madre non saprei. Per lei ero all’estero a lavorare in una multinazionale farmaceutica e questo rassicurava la sua indole ansiotica/schizzofrenica. Per quanto fossi consapevole di come la mia scelta fosse una palese forma di evitamento esistenziale me ne ero dimenticata non appena avevo rivisto il piccolo chalet di zia Wendy vicino a Talkeetna offertomi per il mio internato da eremita. Un perfetto rifugio da riadattare in grado di riadattarmi.
Il muso peloso di Sventura arrivò ai miei piedi.
Eccoti cane scemo!
Gli carezzai l’orecchia mezza monca e attesi l’arrivo del suo padrone.
“Amber!…”, disse Patrick affannato, dalla tasca dei pantaloni estrasse il fazzoletto logoro di sé per asciugarsi la fronte lasciando me in attesa di capire cosa c’era di tanto urgente da venirmi a cercare nella radura. Abbassai gli occhi meditabonda sullo sguardo di Sventura che scodinzolando allegro stava devastando con le sue zampe il giaciglio dove poco prima miravo il cielo, compreso il fuscello della coccinella, ora sparita. Nella migliore delle ipotesi era riuscita a volar via oppure nella peggiore era morta sotto le sue zampe senza alcuna pietà, ma soprattutto senza un vero motivo se non il fatto che un cane scemo senza cervello, ma leale e fedele, l’aveva calpestata senza nemmeno rendersi conto di cosa avesse fatto. Ma del resto, che colpa ne aveva il povero Sventura, era più che probabile avessi fatto altrettanto io sdraiandomi a terra poco prima, magari un genocidio di formiche e specie sconosciute. Ecco… La mia dissonanza cognitiva era ripartita a mille. Per ogni evento riuscivo a vedere le mille sfaccettature. Il bene il male, l’inferno il paradiso, gli opposti in ogni cosa. Feci uno sforzo e mi concentrai su Patrick e su cosa avesse di urgente da dirmi.
“Ti sono venuto a cercare…”, e dopo un bel respiro aggiunse: “C’è un tizio che cerca in affitto una casa. E’ in viaggio, e sta cercando una sistemazione. Frank gli ha detto che tu hai un paio di chalet da affittare”.
“Uhm?”, mormorai confusa.
Di solito non accettavo ospiti senza prenotazione, ma conoscevo Frank e potevo fidarmi di lui. Sicuramente prima di avergli dato le coordinate dello chalet doveva avergli fatto il terzo grado.
“Si chiama Oliver e qualche cosa, ma non ricordo, l’ho lasciato alla casa al lago, quella più grande. Gli ho detto che venivo a cercarti”. L’orizzonte a sud si proiettò nelle lenti degli occhiali di Patrick e catturata dalla sfumatura rosea riflessa mi voltai a mirare il tramonto nel suo splendore originale. Altra giornata di sole per l’indomani pensai e mi godetti quel pensiero cercando di allontanare il pensiero che uno di città volesse alloggiare nello chalet sul lago. La gente di città era sempre pretenziosa e poco adattabile. Proprio per evitare grane nell’annuncio specificavo sempre che non c’era connessione internet, televisione, il bagno era esterno e soprattutto che la zona era popolata da orsi e lupi.
“Grazie Patrick, vado a vedere cosa vuole. Torni con me?”, chiesi.
“No, no, approfitto per andare a pescare, l’orario del tramonto è quello giusto”, rispose Patrick, “Ci vediamo dopo, ti porto qualche pesce”.
Per fortuna, pensai. Lo salutai e non proprio felice mi avviai verso il sentiero del rientro con un presagio a bussarmi alle tempie…
Trovai Oliver vattelapesca seduto al tavolo sotto al portico intento a guardare una piantina della zona.
“Buongiorno”, dissi salendo i gradini.
Rapido si alzò i piedi e con un gran sorriso mi strinse la mano.
“Buongiorno, sono Oliver xxxxxxx, mi ha mandato qui Frank del xxxxxxx”.
“Sì, lo so, benvenuto”.
“Sono in viaggio, sono arrivato oggi da xxxxxx e pensavo di restare nei dintorni un mese circa, sto facendo delle riprese fotografiche”.
“E’ la prima volta che viene in Alaska?”.
“Sì”, rispose.
“Be’ sono sicura che troverà molto da fotografare qui, ma le consiglio di trovare una guida o almeno un fucile, la zona è battuta da orsi e altri animali, meglio non addentrarsi la mattina presto, è l’orario in cui cacciano”.
“Ah, lei conosce qualcuno che può fare al caso mio”.
Scossi la testa. “Non saprei, forse…”, ci pensai un po’ su. “posso sentire Frank, di sicuro lui ha la persona giusta”.
Alzai il vaso e presi la chiave della porta.
“Le mostro la casa. Non aspettavo ospiti e quindi non è stata aperta, se decide di prenderla, verrò a fare le pulizie subito”.
“Non si preoccupi, se il dentro è bello come il fuori starò benissimo”.
“Le faccio portare la legna da Patrick così può accendere il camino”.
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