Quando le storie chiedono libertà

Quando le storie chiedono libertà

Volevo scrivere un post, poi nel rileggerlo ho deciso di farlo analizzare dall’Intelligenza Artificiale e questo di seguito è stato il responso:

Un lettore potrebbe avere diverse reazioni a questo post, basate anche sulla propria esperienza personale:

1. Chi è nel mondo creativo potrebbe sentirsi profondamente compreso, specialmente se ha vissuto la pressione delle aspettative o la paura del giudizio. Il post potrebbe essere una fonte di conforto nel sapere che anche altri artisti di successo attraversano queste difficoltà.
2. Gli aspiranti scrittori potrebbero trovare ispirazione nel messaggio di autenticità. Il post suggerisce che il vero successo non sta necessariamente nei numeri di vendita, ma nella fedeltà alla propria voce creativa.
3. Alcuni lettori potrebbero identificarsi con la sindrome dell’impostore descritta nel post, anche se operano in campi diversi dalla scrittura. La sensazione di non meritare il proprio successo è un’esperienza molto comune.
4. Ci potrebbero essere anche lettori più cinici che vedono il post come un’autogiustificazione per non aver mantenuto il successo iniziale, interpretandolo come una razionalizzazione del “fallimento” nel replicare quel primo successo.
5. Altri potrebbero apprezzare particolarmente l’onestà e la vulnerabilità mostrata nel post, vedendolo come un coraggioso atto di condivisione personale.
6. I lettori più pragmatici potrebbero essere incuriositi dal vedere cosa produrrà questa scrittrice ora che ha deciso di pubblicare nuovamente, creando un’anticipazione per le opere future.

Leggendo tutte le osservazioni la numero quattro è stata quella che mi ha fatto cancellare quanto avevo scritto perché la domanda è stata: Mi sto autogiustificando? Sto razionalizzando?

Me lo sono chiesta onestamente e la risposta è stata: Sì.

Il punto quattro è quello che mi ha più colpito perché ha colto una verità nascosta che tengo dentro di me. Dentro il bunker del mio cuore. Ma non si riferisce al fallimento bensì ad un’altra verità.

E ora la svelo qui, così forse me ne libero.

Qui almeno non viene nessuno a leggere.

Questo spazio è come una bottiglia con un messaggio lanciata nell’oceano del web. Chi la trova, la trova. Non cerco like, non voglio commenti, non ho bisogno di consensi. È solo il mio modo di lasciare una traccia autentica, senza il rumore di fondo dei social.

Un luogo tranquillo dove le parole possono respirare e dove, forse, qualcuno che ne ha bisogno potrà trovarle al momento giusto. E quindi la libero questa benedetta verità.

Il mio tentennare a continuare a scrivere il genere romance, e pubblicarlo, nasce da un evento, qualcosa che è accaduto dopo poco il successo dell’Uragano di un Batter d’Ali, qualcosa di inaspettato e che forse con quel libro ho attirato a me. Ho incontrato nella vita reale una persona tossica, narcisista, una brutta persona, manipolatrice, e quell’idea dell’amore totalitario, irrazionale, folle che avevo descritto nell’uragano l’ho vissuto sulla pelle e fin dentro l’anima. E quando si vive una follia del genere si resta feriti così profondamente da non poter più scrivere storie tanto devastanti perché tu per prima ne conosci il dolore vero, e scrivere un lieto fine diventa impossibile. Ecco anche il motivo per cui a quei tempi decisi di finire il libro “Se fossi qui con me questa sera”, progettato per essere un altro tipo di storia, in modo oscuro, senza il lieto fine che ovviamente provocò tanti cuori infranti fra le lettrici, ma era il più vero e reale che potessi scrivere senza sentirmi ipocrita.

Dopodiché, quando mi sono trovata a scrivere nuovi romanzi negli anni successivi per forza di cose scavavo e riscavavo e riscavavo nella mia ferita facendo diventare la scrittura un incubo, un tunnel nel dolore dove non sapevo più se ero io o la protagonista e tutto si mischiava. E se non si riesce a consolare la tua anima non si riesce tanto meno in un romanzo, che alla fine continui a scrivere, amplificando il dramma, e senza dargli mai una fine, perché non esiste il lieto fine per certe storie.

Questo è il motivo per cui non ho più pubblicato storie tormentate, di amori assoluti. Perché faceva male, a me. Ci è voluto del tempo, per riemergere dal tunnel di chi cade nell’abuso romantico. Ci è voluto parecchio tempo per ricostruire la mia anima, la mia autostima. Accettare la vergogna. Parecchio tempo. E volete sapere quando mi sono accorta che qualcosa era cambiato, che forse ero guarita dall’inguaribile?

Quando riprendendo quei romanzi nel cassetto senza fine e attorcigliati attorno al dramma e al dolore, li ho riletti senza soffrire. Con occhio esterno.

Così ho ricostruito quelle storie che ora sono leggermente diverse perché caratterizzate da altri punti di forza, storie più sane ovviamente perché è quello che ci meritiamo.

La notizia quindi è che ho deciso di liberare quelle storie accumulate nel cassetto. Non più una alla volta, con cautela, ma tutte insieme, come uno stormo di farfalle che prende il volo. Non mi interessa se a distanza di anni non corrispondono alle aspettative del mercato o se si adattano a un genere specifico. L’importante è farle volar via. Quindi a breve comunicherò le uscite.

Inconsueto

Inconsueto

Aiuto si parte!

“Hai preso tutto?”, chiede Milvia.

“Sì, tutto”, rispondo.

L’arzilla vecchietta che mi ha appena offerto un caffè è la mia vicina di casa, un’ultraottantenne che indossa i suoi anni con eleganza e garbo. La sua mente è tanto vispa da far invidia ad una ventenne. Ha insegnato per quarant’ann al liceo Parini di Milano utilizzando i brani del Boss e dei Pink Floyd inoculando oltre a perle di saggezza anche una dose massiccia di inglese. Sarebbe stata l’insegnante ideale per me, sono certa che il mio inglese ne avrebbe beneficiato. E’ un’evoluta, una che si distingue, una che ami solo a guardarla. Un’anima antica e rara e mi conosce da quando ho sei mesi, come gli altrettanti abitanti del condominio in cui vivo, anzi dove praticamente sono cresciuta.

Appoggio le chiavi di casa sul tavolo della sua cucina. E’ mia abitudine lasciarle sempre un mazzo di scorta per ogni evenienza, io le sue le ho già da qualche anno.

Sono in procinto di partire per i consueti venti giorni di ferie agostiane. Di regola, dovrei esserne felice, ma non è così. Vado da mia madre a Roquebrune Cap Martin, nella faraonica villa di mio fratello Andrea affacciata sulla baia di Montecarlo. Vivono insieme, o meglio, lei soggiorna in una dependance nell’immenso giardino padronale. Ha l’alzheimer, conclamato e solo grazie alle risorse finanziarie di mio fratello può guardare il mare dalla sua poltrona tutto il giorno senza preoccuparsi del resto della sua vita. Se non ci fosse stato lui cinque anni fa’ non so davvero che cosa ne sarebbe stato di lei e di me. Quando mi chiedono come sta mia madre rispondo solo: “Vive in un giardino”. Ed è vero. Un eden alla vista e anche nella sua mente ormai regredita a una vita parallela, dove la sua vera famiglia non esiste più.

Andrea è partito per un viaggio in Messico insieme a Sara, la sua seconda moglie. Per venti giorni presidierò il promontorio monegasco. L’unico beneficio di queste ferie, imprigionata in una villa da fantamilionari, è che avrò il mare di fronte agli occhi in ogni dove, una piscina da sogno, un giardino all’italiana, una palestra accessoriata, cantina dei vini grande quanto la mia camera da letto e servitù a prepararmi manicaretti di ogni genere. Bello, tutto molto bello, peccato che io sia l’antitesi di mio fratello. Siamo diversi e simili, e dalla caparbietà contrapposta. Io preferisco il campeggio, il trekking, una spiaggia di sabbia anche accalcata e panini imbottiti di modestia e povertà al lusso che invece ha scelto di volere lui e che ha ottenuto con tutto se stesso.

“Saluta tanto la mamma e dalle un bacio da parte mia, si ricorda di me vero?”, chiede Milvia sulla porta dell’ascensore, con la sua voce inconfondibile da fumatrice seriale.

“Sì, ricorda tutti i vicini di casa tranne dei suoi due figli”, rispondo dandole un bacio.

Milvia sospira e colgo in lei la solita solidarietà compassionevole. Le voglio bene. Davvero. E’ una vicina di casa amorevole e soprattutto poco impicciona.

Prima di mettere in moto l’auto spunto la lista mentale delle cose messe in valigia. Sono sicura di aver dimenticato qualcosa, ne sono quasi certa, e talmente tanto che non mi viene in mente nulla di specifico. Lo scoprirò a cento chilometri da casa, come sempre. L’importante però, come dice Federica, la mia migliore amica, è avere sempre mutande a volontà, tampax, strisce depilatorie e un rossetto, il resto lo si può recuperare facilmente nel peggior negozio cinese del mondo.

Il traffico in autostrada diventa più scorrevole una volta presa la biforcazione per Ventimiglia. Radio Freccia e pensieri a galopparmi in testa e tra questi uno perpetuo che si ripropone ogni dieci.

Non ho più saputo nulla di lui, niente di niente. Potrebbe essere morto e nessuno avrebbe il coraggio di dirmelo, oppure potrebbe avere avuto un figlio ormai di qualche mese e altrettanto nessuno me lo direbbe. Perché è meglio così. Io non l’ho più cercato, lui nemmeno, ma resta il fatto che lo penso ancora. Ho stabilito il contatto zero che significa sforzarsi di non cadere nella trappola social, e obbedisco al diktat della mia anima. Non spio, non cerco, e banno ogni sentimento. Federica dice che è ora di trovarmene un’altro, il famoso chiodo scaccia chiodo, ma è una cazzata. L’ho già fatto prima che lei mi desse il sommo consiglio di chi non sa cosa dire davanti ad un’amore finito e un’ossessione che non scema. 

Sono uscita con uno, anzi tre per la verità, ma ho deciso di chiudere la faccenda uomini al quarto appuntamento. Ho un lanternino molto piccolo che sembra attirare tutto ciò che è piccolo. Cervelli piccoli e corrispettivi peni delle medesime dimensioni. Proprio piccoli. Piccoli tappi irsuti, ma tappi. Ne ho accettati due, nella speranza che fossero un chiodo sufficiente, ma al terzo non me la sono sentita e gli ho offerto un fellazio, rendendogli il favore di avermi fatto venire di lingua. Invece con il quarto, nonostante mi avesse inviato la foto del suo pisello, mi era bastato stringere la mano e vedere un buco nero tra i denti per accusare un mal di testa lancinante e tornarmene a casa. Ho cancellato il mio account dall’applicazione nota per la ricerca dell’anima gemella disinteressandomi completamente al genere maschile.

Sono sfigata, ormai è conclamato. Conosco persone che fanno sesso come se non ci fosse un domani, di qua e di là. Tutte belle fighe, o bei fighi. Forse mentono, oppure hanno un’energia da acchiappa sesso, che io no ho. Devo avere un problema karmico. I fighi non mi cagano, i normali sì, e però spesso, come ho già scritto, mi sorprendono sempre per la pochezza mentale e fisica. Sempre Federica dice che a volte pecco di superbia. Sarà vero, ma non credo. Non ho dei pregiudizi, e forse è questo il problema. Sono una credulona e ho un basso senso dell’autostima. Comunque, come dicevo,  ho abbandonato definitivamente l’idea di trovare qualcuno da quando nella mia vita è entrato Lelo. Il vibratore sonico per eccellenza, un vero amico oserei affermare. E’ nella pochette in valigia. Viene con me, per farmi venire e di lui non me ne sono dimenticata. Un gioiello sessuale con il quale raggiungo l’orgasmo che un uomo non sarà mai in grado di darmi.

Durante il viaggio sono solita fermarmi sempre nello stesso autogrill, quello subito dopo l’uscita di San Bartolomeo al Mare. Il parcheggio è comodo, i bagni puliti e il locale ha una buona selezione di focacce e panini all’occorrenza. Una pipì, un caffè dopo, uno sguardo vago al paesaggio, varie occhiate da parte di camionisti abilmente schivate e riparto alla volta della Francia.

Gli ultimi chilometri dell’autostrada prima della frontiera sono quelli che preferisco, il traffico è ormai scemato di uscita in uscita. Al casello so che ormai sono in dirittura d’arrivo. Poco meno di quindici minuti e sarò al capezzale di mia madre. Non sono mai felice di vederla. Mai provato gioia, ma sempre e solo quella fottuta frustrazione nel doverle stare vicino mostrando un sorriso benevolo quando nel profondo avrei voluto solo che non fosse lei, mia madre. 

Non la amo, non so nemmeno cosa dovrei provare per lei. Può sembrare una cattiveria, ma non è così, è la verità più vera. Il mio amore, se proprio devo chiamarlo così fatto di compassione scoraggiata. Sono cresciuta guardando le altri madri e le mie amiche chiedendomi sempre che relazione ci fosse realmente fra loro. Come dovrebbe essere l’amore tra figlia e madre? Io non lo so. Non lo conosco quel sentimento. Tutto ciò che provo nei suoi confronti è ormai insofferenza. Non mi ha dato nulla, lei, se non paure, delirio, e insicurezza a causa della sua schizofrenia che ha accompagnato la mia crescita da che sono venuta al mondo. Una forma di depressione post-partum degenerata in psicosi con manie persecutorie. Sono cresciuta osservando la sua follia in un angolo della stanza insieme a mio fratello, ma più grande di me di dieci anni, lui ne è rimasto meno paralizzato ma comunque colpito anche lui nell’anima. 

Non sono mai bastati i farmaci a fermare le allucinazioni, solo l’alzheimer ha tolto di mezzo le psicosi rendendola serena nel nuovo mondo che ha creato nella sua testa. Dice che non ha figli e che suo marito è un dottore di Roma, un certo Ottavio. Non ho idea se sia fantasia o semplicemente ciò che avrebbe voluto dalla vita. Mi chiedo anche se questo dottore di Roma sia mai esistito. Forse un amore mai sopito, un’ossessione che le è rimasta dentro nonostante poi abbia sposato mio padre e fatto due figli. Non ho idea. 

L’alzheimer, per quanto abbia messo fine ai deliri, rendendo me e mio fratello in parte più sereni, ci ha tolto l’unica speranza che un giorno potesse svegliarsi dal suo incubo peggiore e rivolgerci finalmente un vero sguardo d’amore condita da un sorriso tutto per noi. Ma no, non accadrà mai, e io sopporto a modo mio ingoiando i rospi, mentre mio fratello lo fa’ nel modo che conosce meglio. Delegando per mezzo dei soldi ad altri le cure per sedarla. E anche se ora sono adulta e quei sentimenti di terrore e odio in parte li ho interiorizzati resta una sola sensazione: la noia. Noia che ci sia ancora, noia che debba continuare a recitare con un sorriso. Noia che il mio nodo biografico sia ancora lì ogni volta che mi specchio nei suoi occhi e penso che forse chissà un giorno anche io potrei uscire di testa come lei. Devo sempre fare un sforzo per trovare di nuovo il baricentro e distaccarmi dalla sua influenza. E so fin da adesso, mentre sto imboccando l’uscita per Montecarlo che tra esattamente venti giorni tornerò a Milano provata emotivamente e una narcolessia a far piazza pulita dell’insofferenza delle mie ferie.

Quando raggiungo la villa, Liliana, la badante di mia madre, mi fa accedere al parcheggio interno. Sistemo la mia piccola Yaris tra le Porsche e la Ferrari nera e faccio attenzione ad aprire lo sportello. Le auto accanto sono splendidamente lucide, la mia invece ha il segno di un paio di merdate di piccione milanese. Poco importa, sono certa che Otis, il domestico di casa, si preoccuperà di farmela lavare al più presto e, con ogni probabilità, la sposterà nel luogo consono ad un’utilitaria dei poveri, ovvero nel retro e nascosta alla vista.

Ci sono tre gradini davanti ai miei piedi. Li faccio uno a uno mentre le spalle cedono già alla pesantezza che mi aspetta dietro la porta.

Ce la posso fare, ripeto a me stessa, ce la posso fare mentre sorrido a Liliana e vedo il volto del mio tormento affiorare dietro di lei.

Chi sei?

“Guarda Laura è venuta a trovarti Giulia, tua figlia”, dice Liliana chinandosi su mia madre il cui sguardo vago è puntato alla televisione dove immancabile su Rai Uno trasmettono una replica di Don Matteo.

“Ciao mamma”, dico avvicinandomi.

Mia madre strizza gli occhi e sbatte le palpebre donandomi poi un gran sorriso, che ormai regala a tutti indistintamente che sia l’addetto alla derattizzazione del giardino o il milionario di passaggio a far visita a mio fratello.

“Buongiorno è qui per farmi la manicure?”, chiede allungando la sua mano gelida. Con la vecchiaia la pelle delle sue mani si è fatta spessa come la cotenna di un maiale.

Annuisco e sorrido a lei e a Liliana accanto. “Sì Laura, sono venuta da Milano, che smalto vuoi mettere oggi?”, le dico sedendomi su un piccolo puff accanto alla sua poltrona.

Lilliana capisce al volo l’antifona e recupera dal bagno due flaconcini di smalto. Oggi, stamani, e forse anche nel pomeriggio per mia madre sarò l’estetista. Stasera chissà?

“Quello rosso o vuoi ancora il color albicocca?”. dico mostrandole i colori.

“Voglio lo smalto rosso, stasera esco a cena”, dice.

“Ohilà!”, dico sorpresa mentre Liliana adagia su un tavolino acetone e armamentario vario per la manicure. “Ci mettiamo in ghingheri allora, Laura?”.

Sorride come una ragazzina e abbassa gli occhi come se provasse imbarazzo.

“Stasera mio marito mi porta fuori a cena”.

“Che bello!”, esclama Liliana che finalmente si è seduta sul divano accanto prendendosi una meritata pausa. E’ di origine ceca, ma posso affermare che è più italiana di altre in circolazione. Vive nel nostro Bel Paese da venticinque anni. Da quando un’estate in vacanza ha conosciuto un bel ragazzo calabrese per cui ha lasciato la sua casa nel nord. Da sette anni vive invece ad Arma di Taggia, da sola, il bel ragazzo calabrese è rimasto al paese convolando a nozze con una di quindici anni meno.

Lilliana è una bellissima donna, vivace e che non si è arresa e non si arrende ancora alle prove della vita. Nel fondo del suo cuore è sempre speranzosa di trovare un amore giusto, ma allo stesso tempo quel cuore è talmente disilluso che non si pone la questione, tuttavia noto i suoi capelli di una colorazione differente e penso che gatta ci cova.

“Dove ti porta tuo marito a cena?”, chiedo levando con il cotone le tracce del precedente smalto color albicocca.

“Non lo so, è una sorpresa. Ha detto che è in riva al mare”.

“Sarà un bel posto, sono sicura che farete una cena a lume di candela”, dice Liliana sbadigliando.

“Sicuramente”, dico.

“Lei è sposata signorina?”, chiede mia madre e il mio finto sorriso benevolo casca a terra. Fermo il trattamento per guardarla dritta negli occhi. Non c’è traccia di lei ormai, non c’è più quella cupezza di cui avevo il terrore da bambina. Vorrei dirle che per tutti i miei venticinque anni prima del buio della sua mente non ha fatto altro che ripetermi ogni santo giorno di non sposarmi e di non fare figli. Ogni santissimo giorno le sue mani si sono strette ai miei avambracci, i suoi occhi a dieci centimetri dai miei e quel maledetto monito detto a denti stretti. “Non sposarti e non avere figli!”.

Sì, questo è il mantra mentale che ha accompagnato la mia identità. Non credere all’amore e non procreare. Diffida della vita.

Vaffanculo stronza! Questo invece è il pensiero, questo quanto desidero dirle e urlarle in faccia, ma faccio zen, come sempre, da sempre e per sempre. Ingoio il rospo e lascio correre.

“No, Laura, aspetto il principe azzurro”, rispondo. Con le forbicine elimino alcune pellicine alle sue dita.

“Io l’ho trovato il principe, lo sa che mio marito Ottavio è un rinomato dottore? Lei pensi ha conosciuto anche il Papa”, dice orgogliosa.

“Bello!”, rispondo alzando gli occhi al mobile alle sue spalle dove tra le cornici in argento scovo quella con il volto di mio padre Vasco. Gli sorrido nel nulla ormai lontano da me e socchiudo appena gli occhi. A volte penso a quanto ha retto la situazione con mia madre per me e mio fratello e oggi, nonostante i sacrifici immensi per tenerci insieme e non farci ammattire pure noi, lei nemmeno se lo ricorda più. L’ironia della sorte si chiama e molto triste a pensarci bene.

Mi affretto e le spalmo lo smalto, voglio allontanarmi. Prendere un respiro. L’odore di mia madre non mi piace. Mai piaciuto. E starle così vicino me lo sento entrare nelle narici e prendere possesso del mio corpo, di me. Termino veloce e mi alzo.

“Adesso Laura non ti devi muovere, devi aspettare che lo smalto si asciughi”.

“Va bene, grazie signorina. Lei è molto carina”.

Grazie, tutta mia madre mi verrebbe da dire, ma faccio finta di nulla. Ancora ingoio e lascio correre, speranzosa che un giorno qualcosa mi renda libera di essere.

“Liliana porto le mie cose in villa, il codice d’accesso è sempre lo stesso?”.

“Sì, lo stesso”.

“Laura, ci vediamo dopo. Vengo a vedere la televisione con te dopo, così ti sistemo anche i piedi”.

“Va bene grazie”, dice con un sorriso.

Quando tornerò sarò un’altra signorina per la sua testa e va bene, entrerò in una nuova sceneggiatura, almeno mi divertirò un po’ con Liliana in discorsi senza senso.

Esco dalla dependance e getto uno sguardo al mare e a Montecarlo. C’è un mega barca che spicca di fronte alla baia. La riconosco, ricordo di averne letto su un giornale e costa la bellezza di quattrocentocinquanta milioni di euro. Una barca… E’ di un russo, e penso che il mondo è un luogo distorto e contraddittorio. Quattrocentocinquanta milioni per una barca spesi dal magnate che in quel momento starà pranzando a suon di aragosta, equivalgono ai quindicimila euro per una macchina di un uomo medio. La proporzione è davvero sconcertante a pensarci. Gli zeri dopo la virgola prima di arrivare al tre percentuale sono davvero troppi. Paraganando i fior di milioni spesi per uno yacht ad uno stipendio comune si potrebbe dire a conti fatti che un’auto costa cinque centesimi.

Qualcosa mi lecca la caviglia, abbasso lo sguardo e vedo ai miei piedi un micro-cane. Un Jack Russel, per la precisione.

“Chi sei?”, chiedo piegandomi sulle ginocchia prendendolo in braccio. Mi lecca la faccia e lo allontano un poco per guardarlo meglio. E’ vivace e simpatico come tutti i simili della sua razza. Ha una macchia a contorno dei un occhio.

Non sapevo che mio fratello avesse preso un nuovo cane. Carlotta e Arturo, i due pastori del Bovaro li ho sentiti abbaiare appena sono arrivata, ma sono chiusi nel recinto per non dar fastidio al giardiniere intendo a sistemare alcune aiuole. Faccio qualche passo e vedo una pallina da tennis tra i fili d’erba tagliati al centimetro. Mi piego rimettendo la bestiola a terra e cerco di prendere la palla, ma i denti aguzzi del cane la inforcano prima che riesca e non ne vogliono sapere di lasciarla andare.

Provo un paio di volte a toglierla dalle sue fauci, poi mi arrendo, e anche lui, intuendo che mi sto scocciando. Tento ancora la presa e di nuovo si avventa su di essa. Cane, penso, sei un cane. Potrebbe fare questo gioco per sempre senza stancarsi. Riesco infine a rubargli la pallina e la lancio lungo il prato. Mentre aspetto che torni a portarmela dalle mie spalle sopraggiunge un acuto profondo emesso da una voce gutturale e maschile che mi fa sobbalzare dallo spavento. Anche il cane si è allarmato tanto da arrestare la sua gioia canina a metà strada e proseguire chino chino fino a raggiungere i miei piedi.

Sento ancora quel grido acuto e sono preoccupata, non tanto per me, ma per la bestiola che si è stesa a pelle di leopardo sopra le mie scarpe.

Mi volto e da oltre la siepe che separa il giardino con quello confinante vedo elevarsi un uomo. Dice qualcosa, ma non lo capisco.

“Non parlo in francese”, dico in italiano. Qui a Montecarlo sono per la maggioranza italiani e i pochi francesi, anche se fanno finta di nulla, capiscono benissimo la lingua italiana.

“Cane”, dice in inglese, “Per favore, il cane”, dice ancora.

“Ah”, bofonchio. Afferro pelle di leopardo che tremolante tra le mie mani subito infila la testa sotto al mio mento. Cristo Santo, mentre mi avvicino alla siepe per consegnargli la bestiola colgo di passo in passo maggiori particolari del tipo, e comprendo il terrore della piccola creatura tra le mie braccia. Non penso sia normale che un uomo riesca a superare una siepe di due metri, ma lui ci riesce e non capisco.

In inglese, mentre mi avvicino gli spiego che l’ho trovato in giardino e pensavo fosse, ma non mi fa finire la frase che apostrofa il nome del cane “Zezze”, credo di capire e mi dice senza molte cortesie: “Dammelo”.

Attraverso le fronde della siepe vedo che è in cima ad una scala e mi tranquillizzo. Ha una normale altezza. Alzo il cucciolo che si divincola. Mi dispiace. Se un cane è così impaurito non so cosa pensare.

Il tipo si sporge oltre la siepe e vedo solo dei bicipiti e pettorali calarmi addosso. Sono fin troppo sviluppati e completamente ricoperti di tatuaggi. I suoi occhi, di ghiaccio, nemmeno mi sfiorano. L’espressione inflessibile. Un volto del genere è in grado di sorridere a qualcuno che sorride sotto di lui mentre gli restituisce l’amato cane? Non sembra.

“Tenga”, dico passandoglielo tra le mani. Noto le nocche e i dorsi tatuati. Una pistola, un coltello, un teschio. Insomma il solito armamentario da tattoo.

Afferrato il cane sparisce senza proferire parola alcuna e  tutto finisce così.

Lo sento oltre la vegetazione rimproverare il cane, e intuisco dalla cadenza della lingua che il tipo è russo. Negli ultimi anni il Principato di Monaco si è riempito di gente dell’est. Ricchi magnati che nulla hanno a che vedere con l’orda migratoria che attanaglia il Paese. Stanno portando enormi capitali nelle casse del piccolo Stato d’elité, tanto che il nuovo quartiere sorto a sud ovest da poco è ormai un sobborgo di moscoviti.

Torno sui miei passi e intercetto la pallina da tennis tra i piedi, la raccolgo e la lancio oltre la siepe senza troppi pensieri.

“Buongiorno Signò”, sento alle mie spalle.

E’ Otis, che appare sempre trasandato come Sampei. Mi sforzo di non ridere, quando parla mi ricorda Ariel il domestico filippino interpretato da Marco Marzocca.

“Fatto buon viaggio, Signò”.

“Sì, tutto bene, tu come stai Otis?”.

“Tutto bene, signò”.

Sto per chiedergli in quale stanza posso portare la valigia ma qualcosa mi tocca il piede. Abbasso lo sguardo e c’è Zezze scodinzolante con la pallina in bocca.

Oh cazzo! A quanto pare un cane si è innamorato di me!

 

Una specie di madrina :-)

Una specie di madrina :-)

Oggi ho accettato l’invito di una cara blogger… Parteciperò al prossimo Festival Romance Italiano a Milano, per qualche ora. Il fatto è che ho accettato senza ben sapere a cosa andrò incontro. Cioè, parliamoci chiaro! Non scrivo da tempo, sono l’antitesi della socialità e sono fuori dalle dinamiche editoriali self e tradizionali da un po’. Non ho idea a chi possa interessare la mia presenza… comunque ci sarò.

La verità però, è che sarei andata comunque al Festival Romance Italiano, ovviamente come visitatrice, perché ancora prima che venissi contattata dalla cara e ostinata Lidia avevo già letto da qualche parte dell’evento, ed ero molto interessata e al tempo stesso felice che una manifestazione del genere approdasse a Milano, ma ancor di più, per la presenza esclusiva di solo autrici italiane. E volevo proprio vederle tutte queste autrici che in questi anni si sono divertite nella scrittura di romance. Lo so, è una visione da “anziane”, ma in fondo un po’ mi sento tale. Per una strana congiuntura astrale faccio parte di quelle “apripista” del selfpublishing e compagnia bella che, nel bene e nel male, hanno contribuito a sbloccare un settore editoriale in stallo, e ben venga…

Pertanto, quando Lidia mi ha contattato, se in un primo momento ho tergiversato per tutte le mie mille paure, alla fine ho accettato non tanto per me, ma per le splendide, avventurose e audaci organizzatrici nonché partecipanti impegnate in questo progetto.

Mi è stato davvero difficile negarmi davanti a chi ci crede profondamente, e che in passato mi ha pure sostenuta senza sapere nemmeno chi fossi. Insomma, credo sia giusto rendere l’energia che un tempo mi venne donata, perché a dispetto di chi sono, e come mi sento in pubblico (tragicamente impaurita), trovo l’iniziativa di un Festival tutto italiano davvero un evento coraggioso e ci credo a prescindere da me.

Tutto qui. Ci vediamo a giugno!

Ciaooo!

Forse Forse

Forse Forse

Da più di dieci minuti Rachel picchiava senza sosta contro le persiane di legno del vecchio cottage di nonna a Block Island.

«Tom, apri o sfondo la porta. Sai che ne sono capace!».

Con la sua camicia stretta in vita, la giacca di pelle e gli occhiali da sole sulla testa, Rachel aveva l’espressione infuriata tipica delle giornate storte.

Mentre assestava un calcio alla porta di ingresso non si capacitava di essere arrivata fino a quel punto e tanto meno che suo fratello si fosse ridotto un rottame per una donna.

All’inizio aveva creduto, o meglio sperato, che il tempo facendo il suo corso avrebbe guarito le ferite della separazione, invece, lungi dal risolversi, la crisi da rottura era progressivamente peggiorata. Dopo aver gettato in faccia il suo cappello da capo chef ad un giovane stronzetto hipster tuttologo del cibo e accanito recensore di tripadvisor, e successivamente essersi rintanato in quella vecchia casa, la situazione si era ulteriormente aggravata nel momento in cui aveva firmato le carte del divorzio con le quali aveva reso libera Wendy di vivere alla luce del sole la nuova storia con l’istruttore di fitness che l’aveva rimessa in linea.

«Te lo chiedo per l’ultima volta, Tom: lasciami entrare!».

Nessuna risposta sopraggiunse oltre l’uscio. Bastardo, pensò stringendo i pugni assestando un ulteriore calcio alla porta.

«E va bene, te la sei cercata», minacciò, togliendosi la giacca.

Le restava un unico modo per riconquistare la casa e strangolare quella testa di cazzo che portava il suo stesso cognome. Come da ragazzina si sarebbe arrampicata per la grondaia del portico fino alla camera da letto. Lo aveva fatto un migliaio di volte per fuggire al coprifuoco di nonna nelle lunghe estati in cui veniva esiliata su quell’isola a trascorrere le vacanze.

Tuttavia l’elasticità del corpo da adulta non era più la stessa di quando aveva quindici anni. Tentò almeno dieci volte di issarsi lungo il tubo, ma sembrava più grande di quanto ricordasse e scivolava ogni qualvolta raggiungeva un quarto del tragitto, oltretutto gli stivali con i tacchi non erano prettamente idonei per un attività del genere.

Fanculo il pilates”, mormorò.

Abbandonata l’idea di ritrovarsi con le ossa rotte, rassegnata si sedette sui gradini del portico. Tom era in casa, ne era sicura. La sua auto era parcheggiata nel vialetto e l’odore di caffè era il segno di un’attività recente all’interno della casa e presto o tardi avrebbe aperto.

Lo so che sei in casa, aprimi ti prego”, disse un’ultima volta. Gli inviò anche un messaggio al cellulare seguito da una emotion triste con lacrima.

Per stemperare l’attesa si accese una sigaretta lasciandosi andare ai ricordi che quel luogo evocavano nella sua mente. Estati di allegria, manicaretti di nonna, dormite fino a tardi, bagni, sole e meravigliosi temporali durante i quali ammirava dalla finestra del sottotetto il mare trafitto dai fulmini. E immancabile, dopo quei piacevoli ricordi di spensieratezza e innocente felicità, un dolore sordo si fece varco nel corpo sotto forma di una stretta allo stomaco. Preferì ricacciare quel dolore con una lunga boccata di sigaretta esorcizzando il mostro e non cadere dentro il vortice dei soliti pensieri paralizzanti. Fanculo, pensò. Ogni qualvolta la memoria le portava briciole di ricordi felici, immancabili sopraggiungevano poi i tasselli lasciati dalla sua rovinosa storia con l’innominabile pezzo di merda che le aveva tolto i risparmi di una vita lasciandola con un cuore rotto e avvinta dalla rabbia.

Un giro di chiave nella serratura allontanò il malessere e gettata la sigaretta si alzò in piedi pronta al confronto con il fratello derelitto.

Immaginavo che presto o tardi saresti arrivata”, disse Tom alle sue spalle.

Testa di cazzo”, disse squadrandolo da capo a piedi. Inorridì davanti al corpo ora esile di suo fratello. Doveva aver perso almeno dieci chili, e mentre il giro vita si era assottigliato, una barba mai vista sul suo volto si era spinta oltre il pomo d’Adamo. Tom Hanks in Cast Away a confronto con quell’essere sembrava un adone.

Fai schifo!”, aggiunse Rachel dopo la rapida anamnesi corporea. “Si può sapere che cosa stai combinando?”.

Niente!”, disse lui senza alcuna remora.

Niente??!!”, borbottò lei scuotendo la testa avvinta.

Mi fa piacere rivederti acciughina”, disse allargando le braccia per raccoglierla a sé come faceva sempre.

Coglione”, borbottò oltrepassando la porta spintonandolo per farsi largo.

Rachel si diresse verso la grande finestra affacciata sulla baia con tutta l’intenzione di spalancarla. L’aria era irrespirabile in quella casa.

Vuoi un caffè?”, chiese Tom.

Sì”, borbottò Rachel.

Sconsolata si buttò sul divano ed incrociò le braccia al petto. Doveva stare calma.

Tom ritornò dalla cucina con due tazze offrendone una a Rachel.

Puoi andare a metterti qualcosa? Ti chiederei di farti una doccia, ma dobbiamo parlare e non ho molto tempo”. I boxer che aveva addosso parlavano da soli.

Tom scomparve al piano superiore e Rachel con la tazza tra le mani rimase a fissarsi nello schermo nero del televisore dopodiché dopo un sorso diede un’occhiata allo schifo che la circondava. Trattenne se stessa dal mettersi all’opera per sistemare. Sapeva bene che una volta uscita da quella casa, tempo due ore l’ambiente sarebbe tornate il porcile che era. Scrutando il tavolino colmo di avanzi di cibo e schifo vario si sorprese nello scorgere alcuni libri sparsi. Tom non era mai stato un gran lettore. La sua massima evasione era sempre stata cazzeggiare davanti al computer e mangiare. Curiosa acciuffò il primo a portata di mano per leggerne il titolo.

Ti amo da sempre

Corrugò la fronte e spostando un cartone della pizza logoro prese un secondo volume.

Il destino è noi due

Poi lesse gli altri titoli che svettavano sopra le copertine: L’amore bussa alla porta; Cercavo te; Trovato te; Mi manchi tu; Amami ancora; Furiosa d’amore

Rachel si chiese se per caso Tom fosse sotto effetto di droghe. Da quando leggeva quei libri? C’era da presumere che fossero della ex-moglie.

Mi faccio una doccia”, urlò Tom dal piano di sopra.

Ti ho detto che non ho molto tempo”, rispose lei.

Faccio in un attimo”.

Nell’attesa riprese in mano il libro dal titolo “Ti amo da sempre” e lesse la prima pagina, terminata la quale dopo una smorfia di disapprovazione scorrendo con il pollice raggiunse l’ultima pagina per leggere le battute finali. Bene, pensò, una volta chiuso il libro. Un bacio, una promessa e l’orizzonte ad attenderli. Un’altro e vissero felici e contenti.

Tom riapparve in soggiorno con indosso una maglietta bianca e un paio di jeans che sembravano puliti. Si sedette nella poltrona accanto al divano e accese la televisione. Rachel subito gli strappò il telecomando dalle mani per spegnerla.

“Ascolta, ho poco tempo!”.

L’espressione di Tom si fece rassegnata e Rachel si innervosì.

Vedo che ti sei dato alla lettura…”, disse sventolando il libro.

Quello non mi è piaciuto”, rispose lui.

Mi chiedo perché!? Da quando leggi questa roba?”, chiese curiosa.

Tom scrollò le spalle indifferente. “Ero curioso, e comunque quella storia non ha senso”.

Come tutte le storie scritte in questi libri”, commentò lei.

Già… Chi scrive quella roba non sa un cazzo dell’amore…”.

Rachel si trattenne dal fare una disquisizione in merito alla tipologia di libri schierata davanti a lei. Dopo la fine della storia con il pezzo di merda aveva smesso di leggere anche i cartelli stradali pur di non piombare nelle crisi esistenziali. Si era autoconcentrata mettendo al bando la fantasia, l’evasione e le storie irreali per dedicarsi a quello che non la faceva pensare. Contabilità, far quadrare bilanci. Spuntare numeri, rendere renumerativi gli investimenti e trarre profitto dove possibile.

Lo penso anche io”, disse laconica.

Il calzino di Tom bucato sul pollice fece inorridire Rachel. Era a pezzi. Un uomo distrutto, ed in cerca di un senso della vita.

Perché se conosci davvero l’amore e la sofferenza che porta con se non ne scriveresti per niente. Avresti una sorta di decenza nel trattare i sentimenti. Non esiste….”.

Rachel annuì. Si accese una nuova sigaretta e così non dover rispondere. Era più saggio lasciarlo parlare. Aveva bisogno di scaricare la rabbia addensata in lui.

Non sanno un cazzo di amore!!”, sottolineò il concetto con più veemenza. Rachel fece una boccata e annuì di nuovo. “Sono solo delle casalinghe, sicuramente stronze e represse in una vita farlocca. Sai, se leggi le loro biografie scopri che sono tutte felicemente sposate da anni, con figli, cani e gatti. Che cosa ne sanno loro di amori se si sono accasate con il primo stronzo di turno. Sono sicuro che se si presentasse un bel maschione di cui raccontano nei loro libri mollerebbero il marito. Ipocrite. Sai che Wendy passava giorni e giorni a leggere questi libri di merda?”, ne afferrò uno e dopo averlo trastullato tra le mani lo lanciò contro il muro.  Rachel annuì ancora senza proferire parola. “Avrei dovuto capirlo subito che si era trovato un altro… Troia! Aveva smesso di leggere, il segno inequivolcabile che si era trovato uno in carne ed ossa a sbatterla. Uno travestito da uomo”.

Rachel a quel punto guardò il fratello con profonda tristezza. Ora le era chiaro il motivo della presenza di una biblioteca di romanzi rosa sul tavolino del soggiorno. Era nella crisi del mal d’amore. In cerca di una risposta al fatto che Wendy avesse scelto un tizio che rappresentava perfettamente un maschione dai muscoli scolpiti e l’immancabile sorriso a mille denti. Il contrario di Tom che oltre ad essere sempre stato in sovrappeso era un uomo senza troppe pretese. La sua autostima da uomo ordinario con il tradimento di Wendy si era ridotta allo zero assoluto al contrario dell’incazzatura che aveva superato la soglia di un numero all’infinito. Provò una grande compassione, ma sinceramente era più preoccupata che lo stato mentale di suo fratello non si ripercuotesse anche sulla sua di vita. Faticosamente ricostruita giorno dopo giorno.

Senti Tom, sono qui per il ristorante. E’ ora che torni al lavoro. Oscar non è in grado di gestire la cucina e i clienti da quando sanno che non ci sei stentano a presentarsi e non so più che scuse inventarmi. Sono quattro mesi”.

Non cucinerò mai più!”, sentenziò lui.

Tom”, disse lei con fare gentile.

Rachel, quello non è più il mio posto. Non ho più voglia di cucinare. Fa schifo l’ingordigia della gente. Fagocitano tutto e poi cagano e nemmeno al cesso. No! In rete. Nel nuovo mondo. La ristorazione ormai riempe solo pance di saccenti. Il significato di riunirsi a tavola non ha più senso al giorno d’oggi”.

Se per questo non ha senso niente a ben vedere, ma… è questa la realtà in cui viviamo e non esiste una via di fuga. Riempi pance ingorde e saccenti per un solo motivo, Tom. Sempre lo stesso. I soldi, Tom, i soldi per vivere e mangiare a tua volta”.

Non esisteva un’alternativa a questo mondo ed era inutile cercarla.

La gente è solo una massa malassortita, un blob che cresce. Siamo tutti dentro in una grande valanga di merda”, mormorò lui con un piglio di disprezzo.

Come faccio con i dipendenti?”, chiese Rachel cercando di farlo tornare a problemi più contingenti e meno ancestrali. “Se gli affari vanno male non avrò liquidità per pagarli”, aggiunse.

Trova un’altro cuoco allora, rileva la mia quota e cerca un nuovo socio. Io non torno più, poi tra una settimana parto per un viaggio”, disse alzandosi.

Che viaggio?”, chiese stupita, “E dove vai?”.

In India”, disse mostrandole una brochure.

Rachel roteò gli occhi al cielo e scosse la testa delusa.

Si chiese dove fosse nata questa bella idea di andarsene in India. Non era da lui. Nella sua vita aveva varcato il confine di New York solo per venire a Block Island.

In India? Tom! Ti prego! Ma se non ha mai lasciato lo Stato di New York. Come ti è venuto in mente?”. Fu allora che dal tavolino notò sotto una vassoio da asporto ammuffito la copertina del famoso bestseller per pseudo femministe che qualche anno prima aveva illuminato donne ad abbandonare la propria esistenza per cercare la felicità e sorrise.

Fammi indovinare, poi andrai anche a Bali? Vai a meditare sulle tue disgrazie e trovare l’illuminazione… ? Tanto sarà una nuova illusione!”, disse Rachel recuperando il libro per sventolarlo. “Sai, la tizia che ha scritto questo libro dopo aver praticamente ipnotizato il mondo con il suo prega, mangia, ama e ridi, canta,  e piangi ed eccetera, dopo aver illuso milioni di persone che attraverso la ricerca della felicità un uomo alla fine lo trovi,  sai cosa fa’ adesso? Be’ ha mollato il tipo figo brasiliano e si è data alle passere”.

Tom prese il libro tra le mani per guardare la quarta di copertina. “Davvero?”, chiese stupito.

Sì, proprio così”.

“Non importa, avrà avuto le sue ragioni. Uno è libero di cambiar idea”.

E certo che avrà avuto le sue ragioni per cambiare, di nuovo, drasticamente la sua vita… pensò Rachel. Forse perché era un’insoddisfatta cronica? Il punto era che suo fratello aveva visto una via di fuga identica a quella. Percorrere il tunnel della ricerca infinita.

Piuttosto vai in Thailandia no? Almeno trovi da scopare e la serotonina si innalza. Di sicuro la reazione chimica riattiverà il cervello e otterrai il medesimo risultato. Di nuovo in forma”.

Tom corrugò la fronte. “Non mi ero mai accorto di quanto fossi diventata stronza e cinica”.

Rachel sbuffò. Le dava fastidio essere associata ai cinici perché lei non si sentiva per niente cinica. Non era un tipo indifferente ai sentimenti e alla morale comune, non era priva di sensibilità. Aveva una comprensione profonda dei sentimenti che guidavano le persone, e proprio per questo non se la sentiva di giustifcarli. Ma decise di sorvolare. Suo fratello era in preda al delirio da esistenza inclinata.

Per la gente comune sono cinica, per chi è minimamente evoluto sono semplicemente una realista. Ma poi, dico, che stereotipo comune è andare in India a ritrovarsi? E’ dagli anni settanta che la gente vola in India in cerca di sé e non mi pare sia avvenuto un gran risveglio a parte nuove e mirabolanti tecniche psicologiche/manipolative a cui aggrapparsi. Tom, sei vecchio per queste cose. Andava bene nel secolo scorso. Cosa credi di trovare? Sorrisi, benedizioni di compassione, pace, amore universale, pensi che la tua vita cambierà? Ti sbagli. Prima capisci che sei solo un criceto su una ruota che gira all’infinito e sempre allo stesso modo, meglio sarà. Svegliati Tom! Puoi ritrovarti anche qui, dove già stai. Deve solo trascorrere del tempo, devi ricalibrarti. Esistono tanti centri di meditazione anche qui”.

Ho già comprato il biglietto non rimborsabile e versato la quota di prenotazione. E voglio cambiare aria! Anche se non mi ritrovo almeno mi faccio una vacanza. Sai da quanto non vado via?”.

“Sì! Dal secolo scorso, appunto”, rispose Rachel seccata. “Ci manca solo che mi torni vegano. E comunque il problema resta. Come faccio a gestire la tua assenza, il ristorante funziona perché ci sei tu dietro ai fornelli?”.

Trovati un cuoco ambizioso, Rachel. E’ pieno il mondo di cuochi. Trova la stella nascente, guarda qualche talent show e seleziona uno per fargli una proposta. Se trovi quello giusto, magari giovane e con volontà per dieci anni sei sicura che lavorerà sodo, poi… il tempo cambierà anche lui”.

Tom, quello è il ristorante di mamma e papà, della nostra famiglia e non mi va di prendere estranei e soprattutto qualcuno di un talent”.

Ma chi se ne frega Rachel”, tuonò. “Papà e mamma sono morti, noi tra un po’ anche, pensi che me ne freghi qualcosa. Non ho nemmeno figli. Cosa vuoi che me ne freghi. Anzi sai cosa dovremmo fare? Vendere il ristorante ora che dilaga il pornofood. Sono sicuro che ci pagheranno vagonate di soldi per subentrare e spacciare nuova ed esaltante cucina dei sensi. Pensaci. E’ il momento giusto”.

Senti testa di cazzo, io capisco il tuo stato, ti giuro, dal profondo del cuore, e so cosa stai attraversando, ma adesso ci sono cose più importanti e mollare tutto non….”.

Cosa? Cosa può essere più importante di me? Ti rendi conto di cosa mi stai dicendo. Io non so più chi sono e non posso più stare così. Il ristorante era una cosa di mamma e papà, un loro frutto e io… ”.

E lo siamo anche noi”, intervenne lei.

Rachel! Non ce la faccio a tornare dieci ore dietro i fornelli. A sfilettare pesce, rosolare e settacciare ceppi di insalata per eliminare quelle leggermente danneggiate e soprattutto incazzarmi per un impiattamento perchè in sala c’è qualche coglione che vuole fotografarlo e se trova un microgrammo di ragù sul piatto e non adagiato sulla cima della porzione di tagliatelle lo mangia disgustato nemmeno fosse merda e non contento appena torna a casa scrive una recensione ad una stella. Voglio fermarmi. Voglio uscire dal Luna Park, scendere dalla ruota. Rachel perdonami, ma non sono più in grado di fare nulla”.

Detto questo Tom prese il telefono seminato sul tavolino.

Chiamo John! Ti faccio fare la procura del ristorante e avviamo le pratiche di cessione”.

Rachel restò a guardare le immagini delle copertine dei libri rassegnata. Prese quello dal titolo “Il destino è noi due” e lesse la dedica iniziale.

A mio marito Brian, tu sei il mio destino, l’orizzonte più immenso. Grazie per esserci.

Non se la sentiva di obiettare alla presa di posizione di Tom. Era la sua, sconsiderata, sbagliata oppure giusta e lei non poteva gestire le sue scelte. Sapeva che aveva bisogno di staccare. Isolarsi e ritrovarsi. Il viaggio per uccidere se stesso. Un percorso obbligato. Del resto anche lei lo aveva fatto, non aveva trovato la felicità piena, ma la serenità di andare avanti.

Prima della storia con Brandon, Rachel aveva sempre pensato che le persone determinassero la loro vita. Che fossero, attraverso la propria mente, in grado di controllare il proprio futuro, di scegliere il proprio partner, il proprio lavoro, le amicizie. Responsabili delle decisioni che condizionavano il corso della loro vita. Invece… aveva scoperto che in realtà esisteva una forza più potente di questo presunto libero arbitrio e che guidava il mondo. L’inconscio, un piccolo animale all’interno di ciascuno di noi. Un alieno presuntuoso. Sotto i vestiti, dietro le maschere, erano tutti irrimediabilmente governati dagli stessi desideri. Siano essi sbagliati, oscuri, e persino riprovevoli. Più si osservava qualcuno e più ci si rendeva conto che non erano mai chi dicevano di essere. Di fatto, in tutti gli umani vi era un segreto ben nascosto. E poteva capitare di scoprire di essere qualcun altro e far venire alla luce quel segreto nascosto. Capitava. Di solito questo avveniva quando l’innocenza veniva frantumata e le difese annientate. Così era stato per Rachel cinque anni prima, e ora anche per Tom, il quale si accingeva a conoscere quel piccolo alieno dentro di sè.

Va bene Tom, fai il viaggio, ma per la procura vediamo quando rientri”, disse mostrandogli finalmente un sorriso.

Grazie sorellina, ho bisogno di andarmene lo capisci?”, disse lui sedendosi accanto spossato.

“Sì!. Lo so”, disse lei.

Lo sapeva bene. Abbracciò suo fratello sapendo che del ragazzo premuroso e anche un po’ goffo con cui era cresciuta a breve non ci sarebbe stato più niente. Sperava solo che la metamorfosi di Tom fosse più breve di quella attraversata da lei.

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La mente in fuga

La mente in fuga

On the longest day
The vanishing mind
Knows not when the day ends
Who could care for you
Who could understand
In the room sealed shut
You’re not what you were

Sulle note della malinconica The vanishing mind osservai una coccinella adagiarsi sul sottile stelo di una primula. In un primo momento fui tentata di allungare la mano ed accoglierla sulle dita, ma appena mi resi conto del sentimento di speranza legato al quel gesto fermai la mia volontà.
Nel microcosmo di altre specie insettivore, la coccinella con il suo aspetto e la singolare forma aveva la capacità di richiamare in noi esseri umani, appartenenti invece al macrocosmo delle cazzate mentali, un senso di simpatia e dolcezza. Questi sentimenti erano per lo più legati alle legende a lei dedicate e tramandate dalla fantasia popolare che spesso le attribuivano il potere della fortuna e dell’amore dietro l’angolo. Tutte storie di falsa speranza. Favole insegnate da tempi immemori atte a plagiare le menti. Pensieri magici per dare un senso superiore agli eventi e alle cose dove in fondo non esistevano. Nella mia vita, di coccinelle ne avevo liberate a volontà e sulle mie mani se ne erano posate altrettante, ma le profezie di amori e buona fortuna non si erano avverate.
In pochi però conoscevano la vera natura di quel grazioso insetto. Sotto quella livrea tondeggiante, e a pois neri si celava un’anima predatrice non da poco. Quei portafortuna volanti, nella loro vera natura, erano tra i più attivi predatori del mondo insettivoro, tanto voraci, al punto da essere cannibali tra loro. E a pensarci bene, non erano molto differenti dagli altri esseri viventi presenti su questo pianeta. Anche loro con una bella maschera di apparenza. A misura di innocenza e bontà, dietro la quale però nascondevano un famelico spirito di sopravvivenza.

So much sweeter now
That there’s nothing left to
Remember you
It’s what brought you here
It’s what keeps you here

Già, pensai ascoltando le parole vibrate dalla voce calda e confortante dei Calexico. Cosa mi aveva portato qui? E cosa mi teneva ancora qui, sdraiata sulla terra di verdi e rigogliose colline a mirare il cielo azzurro?

Your smile brings me back
To the longest day
The vanishing mind

Ecco la risposta. Un sorriso, ormai sfumato, che non era più per me… e a dire il vero, a distanza di anni, era piuttosto evidente  che mai lo era stato per davvero.
Mi tolsi gli auricolari per ascoltare suoni più reali riportando i pensieri in eden meno immaginari ed esistenziali.
“Buon lavoro!”, sussurrai alla coccinella ormai giunta in cima al crinale della primula. Una volta sulle mie gambe, mi stirai un poco e osservai il paradiso in terra sul quale mi trovavo. Inspirai a pieni polmoni l’aria fresca di una nuova primavera ormai alle porte e in un attimo ero di nuovo nel mio emisfero sinistro, quello razionale, lontana dai ricordi e pronta a tornare al mio rifugio nel bosco. Raccolsi il fucile da terra e di nuovo spensierata mi voltai per raggiungere il sentiero, ma nemmeno un passo e…
Cazzo no, pensai appena il mio sguardo individuò il vecchio Patrick insieme a quello che io avevo soprannominato Sventura. Un meticcio pulcioso, frutto di variopinte razze canine che nei suoi otto anni di vita ne aveva vissute di tutti i colori e nonostante le innumerevoli sfighe e l’esperienza acquisita riusciva sempre a cacciarsi nei guai. Sarei ripiombata a terra nascondendomi tra i fili alti dell’erba pur di far perdere le mie tracce, ma ormai era tardi. Patrick mi aveva individuata. Sventolava il suo fucile per richiamare la mia attenzione. Un gesto intimidatorio al di fuori dell’Alaska, ma sorprendentemente amichevole in questo Stato di animali selvaggi alla stato libero.
“Amber”, urlò Patrick.
Alzai il mio fucile in segno di saluto e attesi che mi raggiungesse già rassegnata al dialogo prosciugante da “qualunquemente” mi avrebbe elargito a breve. Non era antipatico il vecchio Patrick, ma come tutti gli esseri viventi, soprattutto di una certa età, e residenti nella sperduta radura del Nord più Nord dell’America, solo come un cane e con un cane al seguito, tendeva a ripetersi nei concetti e pensieri. Una condizione comune al genere umano, ma che in lui degenerava nell’agonia della reminiscenza. Appena trovava qualcuno (in)disposto ad ascoltarlo, e nello specifico la sottoscritta, altro essere vivente presente nell’arco di quindici miglia, apriva il file delle memorie passate e via… Ti sbrodolava una litania di ricordi a partire dai tempi in cui era venuto al mondo sul tavolo della cucina, lo stesso su cui ancora oggi mangiava o leggeva il giornale locale. Personalmente sopportavo a malapena chi ogni due per tre mi riproponeva i suoi ricordi riportandoli al presente. C’era qualcosa di irrisolto nel raccontare il proprio passato e spesso avevo l’impressione che la bobina della memoria avesse come obiettivo dare conferma alla propria esistenza. Un modo per riconciliarsi con chi erano e rialzare l’asticella della propria autostima. Quel tipo di rievocazioni personali avevano la capacità di annientarmi. Non amavo pensare al mio passato, o arrovellarmici dentro pertanto ascoltare estranei disquisire sul proprio mi costringeva a resistere per non mandarli al diavolo. Era una perdita di tempo, almeno per me, ripensare al passato. Tanto le tracce erano dentro di noi. Indelebili. Te le portavi addosso anche senza dover per forza occupare la mente nel ricordare scene di vita vissuta come fossero quelle di un film visto al cinema e che appartenevano poi solo a una sequenza di fotogrammi sui quali mettevi didascalie a tuo piacimento ingannandoti e ingannando gli altri del fatto che in fondo eri una brava persona, intelligente, per bene, o vittima delle circostanze e cos’altro pensavi di essere e che il mondo era il contrario di te. Per come la vedevo, per me l’essere umano era solo un miscuglio di cellule replicate di generazione in generazione e nel tempo avevano prodotto un dna portatore di altri individui irrisolti, ovviamente nostri predecessori, che ogni tanto si riattivavano nei momenti di debolezza per romperti i coglioni. Un inconscio/anima/spirito o come lo si voleva definire composto di mille voci che si risvegliavano alternandosi o tutte insieme. Paure e deliri altrui capaci di pilotarti nei momenti di debolezza. Per questo, un giorno mi ero detta che data l’impossibilità di modificare quel dna di personaggi sconosciuti e allo stesso tempo conosciuti forse era meglio vivere a livello base. Direi l’essenziale. Mangiare, respirare, dormire, camminare e soprattutto pensare al minimo. Una sorta di dieta umana per concedere tempo a quelle cellule irrisolte di trovare la pace o almeno imparare a starsene zitte e raccolte, tutte unite dal silenzio della natura in cui avevo deciso di vivere. Trasferirmi in Alaska mi era sembrata a suo tempo la scelta migliore che potessi fare. Non c’era stato nulla a tenermi legata alla mia città natia se non la speranza che qualcosa prima o poi sarebbe cambiato. Ed era stata proprio quella speranza perduta a spingermi a mollare tutto. Per mio fratello era stata una fuga, per mio padre un atto di codardia, per mia sorella una follia, per zia Wendy il modo migliore per ritrovarmi e per mia madre non saprei. Per lei ero all’estero a lavorare in una multinazionale farmaceutica e questo rassicurava la sua indole ansiotica/schizzofrenica. Per quanto fossi consapevole di come la mia scelta fosse una palese forma di evitamento esistenziale me ne ero dimenticata non appena avevo rivisto il piccolo chalet di zia Wendy vicino a Talkeetna offertomi per il mio internato da eremita. Un perfetto rifugio da riadattare in grado di riadattarmi.

Il muso peloso di Sventura arrivò ai miei piedi.
Eccoti cane scemo!
Gli carezzai l’orecchia mezza monca e attesi l’arrivo del suo padrone.
“Amber!…”, disse Patrick affannato, dalla tasca dei pantaloni estrasse il fazzoletto logoro di sé per asciugarsi la fronte lasciando me in attesa di capire cosa c’era di tanto urgente da venirmi a cercare nella radura. Abbassai gli occhi meditabonda sullo sguardo di Sventura che scodinzolando allegro stava devastando con le sue zampe il giaciglio dove poco prima miravo il cielo, compreso il fuscello della coccinella, ora sparita. Nella migliore delle ipotesi era riuscita a volar via oppure nella peggiore era morta sotto le sue zampe senza alcuna pietà, ma soprattutto senza un vero motivo se non il fatto che un cane scemo senza cervello, ma leale e fedele, l’aveva calpestata senza nemmeno rendersi conto di cosa avesse fatto. Ma del resto, che colpa ne aveva il povero Sventura, era più che probabile avessi fatto altrettanto io sdraiandomi a terra poco prima, magari un genocidio di formiche e specie sconosciute. Ecco… La mia dissonanza cognitiva era ripartita a mille. Per ogni evento riuscivo a vedere le mille sfaccettature. Il bene il male, l’inferno il paradiso, gli opposti in ogni cosa. Feci uno sforzo e mi concentrai su Patrick e su cosa avesse di urgente da dirmi.
“Ti sono venuto a cercare…”, e dopo un bel respiro aggiunse: “C’è un tizio che cerca in affitto una casa. E’ in viaggio, e sta cercando una sistemazione. Frank gli ha detto che tu hai un paio di chalet da affittare”.
“Uhm?”, mormorai confusa.
Di solito non accettavo ospiti senza prenotazione, ma conoscevo Frank e potevo fidarmi di lui. Sicuramente prima di avergli dato le coordinate dello chalet doveva avergli fatto il terzo grado.
“Si chiama Oliver e qualche cosa, ma non ricordo, l’ho lasciato alla casa al lago, quella più grande. Gli ho detto che venivo a cercarti”. L’orizzonte a sud si proiettò nelle lenti degli occhiali di Patrick e catturata dalla sfumatura rosea riflessa mi voltai a mirare il tramonto nel suo splendore originale. Altra giornata di sole per l’indomani pensai e mi godetti quel pensiero cercando di allontanare il pensiero che uno di città volesse alloggiare nello chalet sul lago. La gente di città era sempre pretenziosa e poco adattabile. Proprio per evitare grane nell’annuncio specificavo sempre che non c’era connessione internet, televisione, il bagno era esterno e soprattutto che la zona era popolata da orsi e lupi.
“Grazie Patrick, vado a vedere cosa vuole. Torni con me?”, chiesi.
“No, no, approfitto per andare a pescare, l’orario del tramonto è quello giusto”, rispose Patrick, “Ci vediamo dopo, ti porto qualche pesce”.
Per fortuna, pensai. Lo salutai e non proprio felice mi avviai verso il sentiero del rientro con un presagio a bussarmi alle tempie…
Trovai Oliver vattelapesca seduto al tavolo sotto al portico intento a guardare una piantina della zona.
“Buongiorno”, dissi salendo i gradini.
Rapido si alzò i piedi e con un gran sorriso mi strinse la mano.
“Buongiorno, sono Oliver xxxxxxx, mi ha mandato qui Frank del xxxxxxx”.
“Sì, lo so, benvenuto”.
“Sono in viaggio, sono arrivato oggi da xxxxxx e pensavo di restare nei dintorni un mese circa, sto facendo delle riprese fotografiche”.
“E’ la prima volta che viene in Alaska?”.
“Sì”, rispose.
“Be’ sono sicura che troverà molto da fotografare qui, ma le consiglio di trovare una guida o almeno un fucile, la zona è battuta da orsi e altri animali, meglio non addentrarsi la mattina presto, è l’orario in cui cacciano”.
“Ah, lei conosce qualcuno che può fare al caso mio”.
Scossi la testa. “Non saprei, forse…”, ci pensai un po’ su. “posso sentire Frank, di sicuro lui ha la persona giusta”.
Alzai il vaso e presi la chiave della porta.
“Le mostro la casa. Non aspettavo ospiti e quindi non è stata aperta, se decide di prenderla, verrò a fare le pulizie subito”.
“Non si preoccupi, se il dentro è bello come il fuori starò benissimo”.
“Le faccio portare la legna da Patrick così può accendere il camino”.

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