Una specie di madrina :-)

Una specie di madrina :-)

Oggi ho accettato l’invito di una cara blogger… Parteciperò al prossimo Festival Romance Italiano a Milano, per qualche ora. Il fatto è che ho accettato senza ben sapere a cosa andrò incontro. Cioè, parliamoci chiaro! Non scrivo da tempo, sono l’antitesi della socialità e sono fuori dalle dinamiche editoriali self e tradizionali da un po’. Non ho idea a chi possa interessare la mia presenza… comunque ci sarò.

La verità però, è che sarei andata comunque al Festival Romance Italiano, ovviamente come visitatrice, perché ancora prima che venissi contattata dalla cara e ostinata Lidia avevo già letto da qualche parte dell’evento, ed ero molto interessata e al tempo stesso felice che una manifestazione del genere approdasse a Milano, ma ancor di più, per la presenza esclusiva di solo autrici italiane. E volevo proprio vederle tutte queste autrici che in questi anni si sono divertite nella scrittura di romance. Lo so, è una visione da “anziane”, ma in fondo un po’ mi sento tale. Per una strana congiuntura astrale faccio parte di quelle “apripista” del selfpublishing e compagnia bella che, nel bene e nel male, hanno contribuito a sbloccare un settore editoriale in stallo, e ben venga…

Pertanto, quando Lidia mi ha contattato, se in un primo momento ho tergiversato per tutte le mie mille paure, alla fine ho accettato non tanto per me, ma per le splendide, avventurose e audaci organizzatrici nonché partecipanti impegnate in questo progetto.

Mi è stato davvero difficile negarmi davanti a chi ci crede profondamente, e che in passato mi ha pure sostenuta senza sapere nemmeno chi fossi. Insomma, credo sia giusto rendere l’energia che un tempo mi venne donata, perché a dispetto di chi sono, e come mi sento in pubblico (tragicamente impaurita), trovo l’iniziativa di un Festival tutto italiano davvero un evento coraggioso e ci credo a prescindere da me.

Tutto qui. Ci vediamo a giugno!

Ciaooo!

Forse Forse

Forse Forse

Da più di dieci minuti Rachel picchiava senza sosta contro le persiane di legno del vecchio cottage di nonna a Block Island.

«Tom, apri o sfondo la porta. Sai che ne sono capace!».

Con la sua camicia stretta in vita, la giacca di pelle e gli occhiali da sole sulla testa, Rachel aveva l’espressione infuriata tipica delle giornate storte.

Mentre assestava un calcio alla porta di ingresso non si capacitava di essere arrivata fino a quel punto e tanto meno che suo fratello si fosse ridotto un rottame per una donna.

All’inizio aveva creduto, o meglio sperato, che il tempo facendo il suo corso avrebbe guarito le ferite della separazione, invece, lungi dal risolversi, la crisi da rottura era progressivamente peggiorata. Dopo aver gettato in faccia il suo cappello da capo chef ad un giovane stronzetto hipster tuttologo del cibo e accanito recensore di tripadvisor, e successivamente essersi rintanato in quella vecchia casa, la situazione si era ulteriormente aggravata nel momento in cui aveva firmato le carte del divorzio con le quali aveva reso libera Wendy di vivere alla luce del sole la nuova storia con l’istruttore di fitness che l’aveva rimessa in linea.

«Te lo chiedo per l’ultima volta, Tom: lasciami entrare!».

Nessuna risposta sopraggiunse oltre l’uscio. Bastardo, pensò stringendo i pugni assestando un ulteriore calcio alla porta.

«E va bene, te la sei cercata», minacciò, togliendosi la giacca.

Le restava un unico modo per riconquistare la casa e strangolare quella testa di cazzo che portava il suo stesso cognome. Come da ragazzina si sarebbe arrampicata per la grondaia del portico fino alla camera da letto. Lo aveva fatto un migliaio di volte per fuggire al coprifuoco di nonna nelle lunghe estati in cui veniva esiliata su quell’isola a trascorrere le vacanze.

Tuttavia l’elasticità del corpo da adulta non era più la stessa di quando aveva quindici anni. Tentò almeno dieci volte di issarsi lungo il tubo, ma sembrava più grande di quanto ricordasse e scivolava ogni qualvolta raggiungeva un quarto del tragitto, oltretutto gli stivali con i tacchi non erano prettamente idonei per un attività del genere.

Fanculo il pilates”, mormorò.

Abbandonata l’idea di ritrovarsi con le ossa rotte, rassegnata si sedette sui gradini del portico. Tom era in casa, ne era sicura. La sua auto era parcheggiata nel vialetto e l’odore di caffè era il segno di un’attività recente all’interno della casa e presto o tardi avrebbe aperto.

Lo so che sei in casa, aprimi ti prego”, disse un’ultima volta. Gli inviò anche un messaggio al cellulare seguito da una emotion triste con lacrima.

Per stemperare l’attesa si accese una sigaretta lasciandosi andare ai ricordi che quel luogo evocavano nella sua mente. Estati di allegria, manicaretti di nonna, dormite fino a tardi, bagni, sole e meravigliosi temporali durante i quali ammirava dalla finestra del sottotetto il mare trafitto dai fulmini. E immancabile, dopo quei piacevoli ricordi di spensieratezza e innocente felicità, un dolore sordo si fece varco nel corpo sotto forma di una stretta allo stomaco. Preferì ricacciare quel dolore con una lunga boccata di sigaretta esorcizzando il mostro e non cadere dentro il vortice dei soliti pensieri paralizzanti. Fanculo, pensò. Ogni qualvolta la memoria le portava briciole di ricordi felici, immancabili sopraggiungevano poi i tasselli lasciati dalla sua rovinosa storia con l’innominabile pezzo di merda che le aveva tolto i risparmi di una vita lasciandola con un cuore rotto e avvinta dalla rabbia.

Un giro di chiave nella serratura allontanò il malessere e gettata la sigaretta si alzò in piedi pronta al confronto con il fratello derelitto.

Immaginavo che presto o tardi saresti arrivata”, disse Tom alle sue spalle.

Testa di cazzo”, disse squadrandolo da capo a piedi. Inorridì davanti al corpo ora esile di suo fratello. Doveva aver perso almeno dieci chili, e mentre il giro vita si era assottigliato, una barba mai vista sul suo volto si era spinta oltre il pomo d’Adamo. Tom Hanks in Cast Away a confronto con quell’essere sembrava un adone.

Fai schifo!”, aggiunse Rachel dopo la rapida anamnesi corporea. “Si può sapere che cosa stai combinando?”.

Niente!”, disse lui senza alcuna remora.

Niente??!!”, borbottò lei scuotendo la testa avvinta.

Mi fa piacere rivederti acciughina”, disse allargando le braccia per raccoglierla a sé come faceva sempre.

Coglione”, borbottò oltrepassando la porta spintonandolo per farsi largo.

Rachel si diresse verso la grande finestra affacciata sulla baia con tutta l’intenzione di spalancarla. L’aria era irrespirabile in quella casa.

Vuoi un caffè?”, chiese Tom.

Sì”, borbottò Rachel.

Sconsolata si buttò sul divano ed incrociò le braccia al petto. Doveva stare calma.

Tom ritornò dalla cucina con due tazze offrendone una a Rachel.

Puoi andare a metterti qualcosa? Ti chiederei di farti una doccia, ma dobbiamo parlare e non ho molto tempo”. I boxer che aveva addosso parlavano da soli.

Tom scomparve al piano superiore e Rachel con la tazza tra le mani rimase a fissarsi nello schermo nero del televisore dopodiché dopo un sorso diede un’occhiata allo schifo che la circondava. Trattenne se stessa dal mettersi all’opera per sistemare. Sapeva bene che una volta uscita da quella casa, tempo due ore l’ambiente sarebbe tornate il porcile che era. Scrutando il tavolino colmo di avanzi di cibo e schifo vario si sorprese nello scorgere alcuni libri sparsi. Tom non era mai stato un gran lettore. La sua massima evasione era sempre stata cazzeggiare davanti al computer e mangiare. Curiosa acciuffò il primo a portata di mano per leggerne il titolo.

Ti amo da sempre

Corrugò la fronte e spostando un cartone della pizza logoro prese un secondo volume.

Il destino è noi due

Poi lesse gli altri titoli che svettavano sopra le copertine: L’amore bussa alla porta; Cercavo te; Trovato te; Mi manchi tu; Amami ancora; Furiosa d’amore

Rachel si chiese se per caso Tom fosse sotto effetto di droghe. Da quando leggeva quei libri? C’era da presumere che fossero della ex-moglie.

Mi faccio una doccia”, urlò Tom dal piano di sopra.

Ti ho detto che non ho molto tempo”, rispose lei.

Faccio in un attimo”.

Nell’attesa riprese in mano il libro dal titolo “Ti amo da sempre” e lesse la prima pagina, terminata la quale dopo una smorfia di disapprovazione scorrendo con il pollice raggiunse l’ultima pagina per leggere le battute finali. Bene, pensò, una volta chiuso il libro. Un bacio, una promessa e l’orizzonte ad attenderli. Un’altro e vissero felici e contenti.

Tom riapparve in soggiorno con indosso una maglietta bianca e un paio di jeans che sembravano puliti. Si sedette nella poltrona accanto al divano e accese la televisione. Rachel subito gli strappò il telecomando dalle mani per spegnerla.

“Ascolta, ho poco tempo!”.

L’espressione di Tom si fece rassegnata e Rachel si innervosì.

Vedo che ti sei dato alla lettura…”, disse sventolando il libro.

Quello non mi è piaciuto”, rispose lui.

Mi chiedo perché!? Da quando leggi questa roba?”, chiese curiosa.

Tom scrollò le spalle indifferente. “Ero curioso, e comunque quella storia non ha senso”.

Come tutte le storie scritte in questi libri”, commentò lei.

Già… Chi scrive quella roba non sa un cazzo dell’amore…”.

Rachel si trattenne dal fare una disquisizione in merito alla tipologia di libri schierata davanti a lei. Dopo la fine della storia con il pezzo di merda aveva smesso di leggere anche i cartelli stradali pur di non piombare nelle crisi esistenziali. Si era autoconcentrata mettendo al bando la fantasia, l’evasione e le storie irreali per dedicarsi a quello che non la faceva pensare. Contabilità, far quadrare bilanci. Spuntare numeri, rendere renumerativi gli investimenti e trarre profitto dove possibile.

Lo penso anche io”, disse laconica.

Il calzino di Tom bucato sul pollice fece inorridire Rachel. Era a pezzi. Un uomo distrutto, ed in cerca di un senso della vita.

Perché se conosci davvero l’amore e la sofferenza che porta con se non ne scriveresti per niente. Avresti una sorta di decenza nel trattare i sentimenti. Non esiste….”.

Rachel annuì. Si accese una nuova sigaretta e così non dover rispondere. Era più saggio lasciarlo parlare. Aveva bisogno di scaricare la rabbia addensata in lui.

Non sanno un cazzo di amore!!”, sottolineò il concetto con più veemenza. Rachel fece una boccata e annuì di nuovo. “Sono solo delle casalinghe, sicuramente stronze e represse in una vita farlocca. Sai, se leggi le loro biografie scopri che sono tutte felicemente sposate da anni, con figli, cani e gatti. Che cosa ne sanno loro di amori se si sono accasate con il primo stronzo di turno. Sono sicuro che se si presentasse un bel maschione di cui raccontano nei loro libri mollerebbero il marito. Ipocrite. Sai che Wendy passava giorni e giorni a leggere questi libri di merda?”, ne afferrò uno e dopo averlo trastullato tra le mani lo lanciò contro il muro.  Rachel annuì ancora senza proferire parola. “Avrei dovuto capirlo subito che si era trovato un altro… Troia! Aveva smesso di leggere, il segno inequivolcabile che si era trovato uno in carne ed ossa a sbatterla. Uno travestito da uomo”.

Rachel a quel punto guardò il fratello con profonda tristezza. Ora le era chiaro il motivo della presenza di una biblioteca di romanzi rosa sul tavolino del soggiorno. Era nella crisi del mal d’amore. In cerca di una risposta al fatto che Wendy avesse scelto un tizio che rappresentava perfettamente un maschione dai muscoli scolpiti e l’immancabile sorriso a mille denti. Il contrario di Tom che oltre ad essere sempre stato in sovrappeso era un uomo senza troppe pretese. La sua autostima da uomo ordinario con il tradimento di Wendy si era ridotta allo zero assoluto al contrario dell’incazzatura che aveva superato la soglia di un numero all’infinito. Provò una grande compassione, ma sinceramente era più preoccupata che lo stato mentale di suo fratello non si ripercuotesse anche sulla sua di vita. Faticosamente ricostruita giorno dopo giorno.

Senti Tom, sono qui per il ristorante. E’ ora che torni al lavoro. Oscar non è in grado di gestire la cucina e i clienti da quando sanno che non ci sei stentano a presentarsi e non so più che scuse inventarmi. Sono quattro mesi”.

Non cucinerò mai più!”, sentenziò lui.

Tom”, disse lei con fare gentile.

Rachel, quello non è più il mio posto. Non ho più voglia di cucinare. Fa schifo l’ingordigia della gente. Fagocitano tutto e poi cagano e nemmeno al cesso. No! In rete. Nel nuovo mondo. La ristorazione ormai riempe solo pance di saccenti. Il significato di riunirsi a tavola non ha più senso al giorno d’oggi”.

Se per questo non ha senso niente a ben vedere, ma… è questa la realtà in cui viviamo e non esiste una via di fuga. Riempi pance ingorde e saccenti per un solo motivo, Tom. Sempre lo stesso. I soldi, Tom, i soldi per vivere e mangiare a tua volta”.

Non esisteva un’alternativa a questo mondo ed era inutile cercarla.

La gente è solo una massa malassortita, un blob che cresce. Siamo tutti dentro in una grande valanga di merda”, mormorò lui con un piglio di disprezzo.

Come faccio con i dipendenti?”, chiese Rachel cercando di farlo tornare a problemi più contingenti e meno ancestrali. “Se gli affari vanno male non avrò liquidità per pagarli”, aggiunse.

Trova un’altro cuoco allora, rileva la mia quota e cerca un nuovo socio. Io non torno più, poi tra una settimana parto per un viaggio”, disse alzandosi.

Che viaggio?”, chiese stupita, “E dove vai?”.

In India”, disse mostrandole una brochure.

Rachel roteò gli occhi al cielo e scosse la testa delusa.

Si chiese dove fosse nata questa bella idea di andarsene in India. Non era da lui. Nella sua vita aveva varcato il confine di New York solo per venire a Block Island.

In India? Tom! Ti prego! Ma se non ha mai lasciato lo Stato di New York. Come ti è venuto in mente?”. Fu allora che dal tavolino notò sotto una vassoio da asporto ammuffito la copertina del famoso bestseller per pseudo femministe che qualche anno prima aveva illuminato donne ad abbandonare la propria esistenza per cercare la felicità e sorrise.

Fammi indovinare, poi andrai anche a Bali? Vai a meditare sulle tue disgrazie e trovare l’illuminazione… ? Tanto sarà una nuova illusione!”, disse Rachel recuperando il libro per sventolarlo. “Sai, la tizia che ha scritto questo libro dopo aver praticamente ipnotizato il mondo con il suo prega, mangia, ama e ridi, canta,  e piangi ed eccetera, dopo aver illuso milioni di persone che attraverso la ricerca della felicità un uomo alla fine lo trovi,  sai cosa fa’ adesso? Be’ ha mollato il tipo figo brasiliano e si è data alle passere”.

Tom prese il libro tra le mani per guardare la quarta di copertina. “Davvero?”, chiese stupito.

Sì, proprio così”.

“Non importa, avrà avuto le sue ragioni. Uno è libero di cambiar idea”.

E certo che avrà avuto le sue ragioni per cambiare, di nuovo, drasticamente la sua vita… pensò Rachel. Forse perché era un’insoddisfatta cronica? Il punto era che suo fratello aveva visto una via di fuga identica a quella. Percorrere il tunnel della ricerca infinita.

Piuttosto vai in Thailandia no? Almeno trovi da scopare e la serotonina si innalza. Di sicuro la reazione chimica riattiverà il cervello e otterrai il medesimo risultato. Di nuovo in forma”.

Tom corrugò la fronte. “Non mi ero mai accorto di quanto fossi diventata stronza e cinica”.

Rachel sbuffò. Le dava fastidio essere associata ai cinici perché lei non si sentiva per niente cinica. Non era un tipo indifferente ai sentimenti e alla morale comune, non era priva di sensibilità. Aveva una comprensione profonda dei sentimenti che guidavano le persone, e proprio per questo non se la sentiva di giustifcarli. Ma decise di sorvolare. Suo fratello era in preda al delirio da esistenza inclinata.

Per la gente comune sono cinica, per chi è minimamente evoluto sono semplicemente una realista. Ma poi, dico, che stereotipo comune è andare in India a ritrovarsi? E’ dagli anni settanta che la gente vola in India in cerca di sé e non mi pare sia avvenuto un gran risveglio a parte nuove e mirabolanti tecniche psicologiche/manipolative a cui aggrapparsi. Tom, sei vecchio per queste cose. Andava bene nel secolo scorso. Cosa credi di trovare? Sorrisi, benedizioni di compassione, pace, amore universale, pensi che la tua vita cambierà? Ti sbagli. Prima capisci che sei solo un criceto su una ruota che gira all’infinito e sempre allo stesso modo, meglio sarà. Svegliati Tom! Puoi ritrovarti anche qui, dove già stai. Deve solo trascorrere del tempo, devi ricalibrarti. Esistono tanti centri di meditazione anche qui”.

Ho già comprato il biglietto non rimborsabile e versato la quota di prenotazione. E voglio cambiare aria! Anche se non mi ritrovo almeno mi faccio una vacanza. Sai da quanto non vado via?”.

“Sì! Dal secolo scorso, appunto”, rispose Rachel seccata. “Ci manca solo che mi torni vegano. E comunque il problema resta. Come faccio a gestire la tua assenza, il ristorante funziona perché ci sei tu dietro ai fornelli?”.

Trovati un cuoco ambizioso, Rachel. E’ pieno il mondo di cuochi. Trova la stella nascente, guarda qualche talent show e seleziona uno per fargli una proposta. Se trovi quello giusto, magari giovane e con volontà per dieci anni sei sicura che lavorerà sodo, poi… il tempo cambierà anche lui”.

Tom, quello è il ristorante di mamma e papà, della nostra famiglia e non mi va di prendere estranei e soprattutto qualcuno di un talent”.

Ma chi se ne frega Rachel”, tuonò. “Papà e mamma sono morti, noi tra un po’ anche, pensi che me ne freghi qualcosa. Non ho nemmeno figli. Cosa vuoi che me ne freghi. Anzi sai cosa dovremmo fare? Vendere il ristorante ora che dilaga il pornofood. Sono sicuro che ci pagheranno vagonate di soldi per subentrare e spacciare nuova ed esaltante cucina dei sensi. Pensaci. E’ il momento giusto”.

Senti testa di cazzo, io capisco il tuo stato, ti giuro, dal profondo del cuore, e so cosa stai attraversando, ma adesso ci sono cose più importanti e mollare tutto non….”.

Cosa? Cosa può essere più importante di me? Ti rendi conto di cosa mi stai dicendo. Io non so più chi sono e non posso più stare così. Il ristorante era una cosa di mamma e papà, un loro frutto e io… ”.

E lo siamo anche noi”, intervenne lei.

Rachel! Non ce la faccio a tornare dieci ore dietro i fornelli. A sfilettare pesce, rosolare e settacciare ceppi di insalata per eliminare quelle leggermente danneggiate e soprattutto incazzarmi per un impiattamento perchè in sala c’è qualche coglione che vuole fotografarlo e se trova un microgrammo di ragù sul piatto e non adagiato sulla cima della porzione di tagliatelle lo mangia disgustato nemmeno fosse merda e non contento appena torna a casa scrive una recensione ad una stella. Voglio fermarmi. Voglio uscire dal Luna Park, scendere dalla ruota. Rachel perdonami, ma non sono più in grado di fare nulla”.

Detto questo Tom prese il telefono seminato sul tavolino.

Chiamo John! Ti faccio fare la procura del ristorante e avviamo le pratiche di cessione”.

Rachel restò a guardare le immagini delle copertine dei libri rassegnata. Prese quello dal titolo “Il destino è noi due” e lesse la dedica iniziale.

A mio marito Brian, tu sei il mio destino, l’orizzonte più immenso. Grazie per esserci.

Non se la sentiva di obiettare alla presa di posizione di Tom. Era la sua, sconsiderata, sbagliata oppure giusta e lei non poteva gestire le sue scelte. Sapeva che aveva bisogno di staccare. Isolarsi e ritrovarsi. Il viaggio per uccidere se stesso. Un percorso obbligato. Del resto anche lei lo aveva fatto, non aveva trovato la felicità piena, ma la serenità di andare avanti.

Prima della storia con Brandon, Rachel aveva sempre pensato che le persone determinassero la loro vita. Che fossero, attraverso la propria mente, in grado di controllare il proprio futuro, di scegliere il proprio partner, il proprio lavoro, le amicizie. Responsabili delle decisioni che condizionavano il corso della loro vita. Invece… aveva scoperto che in realtà esisteva una forza più potente di questo presunto libero arbitrio e che guidava il mondo. L’inconscio, un piccolo animale all’interno di ciascuno di noi. Un alieno presuntuoso. Sotto i vestiti, dietro le maschere, erano tutti irrimediabilmente governati dagli stessi desideri. Siano essi sbagliati, oscuri, e persino riprovevoli. Più si osservava qualcuno e più ci si rendeva conto che non erano mai chi dicevano di essere. Di fatto, in tutti gli umani vi era un segreto ben nascosto. E poteva capitare di scoprire di essere qualcun altro e far venire alla luce quel segreto nascosto. Capitava. Di solito questo avveniva quando l’innocenza veniva frantumata e le difese annientate. Così era stato per Rachel cinque anni prima, e ora anche per Tom, il quale si accingeva a conoscere quel piccolo alieno dentro di sè.

Va bene Tom, fai il viaggio, ma per la procura vediamo quando rientri”, disse mostrandogli finalmente un sorriso.

Grazie sorellina, ho bisogno di andarmene lo capisci?”, disse lui sedendosi accanto spossato.

“Sì!. Lo so”, disse lei.

Lo sapeva bene. Abbracciò suo fratello sapendo che del ragazzo premuroso e anche un po’ goffo con cui era cresciuta a breve non ci sarebbe stato più niente. Sperava solo che la metamorfosi di Tom fosse più breve di quella attraversata da lei.

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La mente in fuga

La mente in fuga

On the longest day
The vanishing mind
Knows not when the day ends
Who could care for you
Who could understand
In the room sealed shut
You’re not what you were

Sulle note della malinconica The vanishing mind osservai una coccinella adagiarsi sul sottile stelo di una primula. In un primo momento fui tentata di allungare la mano ed accoglierla sulle dita, ma appena mi resi conto del sentimento di speranza legato al quel gesto fermai la mia volontà.
Nel microcosmo di altre specie insettivore, la coccinella con il suo aspetto e la singolare forma aveva la capacità di richiamare in noi esseri umani, appartenenti invece al macrocosmo delle cazzate mentali, un senso di simpatia e dolcezza. Questi sentimenti erano per lo più legati alle legende a lei dedicate e tramandate dalla fantasia popolare che spesso le attribuivano il potere della fortuna e dell’amore dietro l’angolo. Tutte storie di falsa speranza. Favole insegnate da tempi immemori atte a plagiare le menti. Pensieri magici per dare un senso superiore agli eventi e alle cose dove in fondo non esistevano. Nella mia vita, di coccinelle ne avevo liberate a volontà e sulle mie mani se ne erano posate altrettante, ma le profezie di amori e buona fortuna non si erano avverate.
In pochi però conoscevano la vera natura di quel grazioso insetto. Sotto quella livrea tondeggiante, e a pois neri si celava un’anima predatrice non da poco. Quei portafortuna volanti, nella loro vera natura, erano tra i più attivi predatori del mondo insettivoro, tanto voraci, al punto da essere cannibali tra loro. E a pensarci bene, non erano molto differenti dagli altri esseri viventi presenti su questo pianeta. Anche loro con una bella maschera di apparenza. A misura di innocenza e bontà, dietro la quale però nascondevano un famelico spirito di sopravvivenza.

So much sweeter now
That there’s nothing left to
Remember you
It’s what brought you here
It’s what keeps you here

Già, pensai ascoltando le parole vibrate dalla voce calda e confortante dei Calexico. Cosa mi aveva portato qui? E cosa mi teneva ancora qui, sdraiata sulla terra di verdi e rigogliose colline a mirare il cielo azzurro?

Your smile brings me back
To the longest day
The vanishing mind

Ecco la risposta. Un sorriso, ormai sfumato, che non era più per me… e a dire il vero, a distanza di anni, era piuttosto evidente  che mai lo era stato per davvero.
Mi tolsi gli auricolari per ascoltare suoni più reali riportando i pensieri in eden meno immaginari ed esistenziali.
“Buon lavoro!”, sussurrai alla coccinella ormai giunta in cima al crinale della primula. Una volta sulle mie gambe, mi stirai un poco e osservai il paradiso in terra sul quale mi trovavo. Inspirai a pieni polmoni l’aria fresca di una nuova primavera ormai alle porte e in un attimo ero di nuovo nel mio emisfero sinistro, quello razionale, lontana dai ricordi e pronta a tornare al mio rifugio nel bosco. Raccolsi il fucile da terra e di nuovo spensierata mi voltai per raggiungere il sentiero, ma nemmeno un passo e…
Cazzo no, pensai appena il mio sguardo individuò il vecchio Patrick insieme a quello che io avevo soprannominato Sventura. Un meticcio pulcioso, frutto di variopinte razze canine che nei suoi otto anni di vita ne aveva vissute di tutti i colori e nonostante le innumerevoli sfighe e l’esperienza acquisita riusciva sempre a cacciarsi nei guai. Sarei ripiombata a terra nascondendomi tra i fili alti dell’erba pur di far perdere le mie tracce, ma ormai era tardi. Patrick mi aveva individuata. Sventolava il suo fucile per richiamare la mia attenzione. Un gesto intimidatorio al di fuori dell’Alaska, ma sorprendentemente amichevole in questo Stato di animali selvaggi alla stato libero.
“Amber”, urlò Patrick.
Alzai il mio fucile in segno di saluto e attesi che mi raggiungesse già rassegnata al dialogo prosciugante da “qualunquemente” mi avrebbe elargito a breve. Non era antipatico il vecchio Patrick, ma come tutti gli esseri viventi, soprattutto di una certa età, e residenti nella sperduta radura del Nord più Nord dell’America, solo come un cane e con un cane al seguito, tendeva a ripetersi nei concetti e pensieri. Una condizione comune al genere umano, ma che in lui degenerava nell’agonia della reminiscenza. Appena trovava qualcuno (in)disposto ad ascoltarlo, e nello specifico la sottoscritta, altro essere vivente presente nell’arco di quindici miglia, apriva il file delle memorie passate e via… Ti sbrodolava una litania di ricordi a partire dai tempi in cui era venuto al mondo sul tavolo della cucina, lo stesso su cui ancora oggi mangiava o leggeva il giornale locale. Personalmente sopportavo a malapena chi ogni due per tre mi riproponeva i suoi ricordi riportandoli al presente. C’era qualcosa di irrisolto nel raccontare il proprio passato e spesso avevo l’impressione che la bobina della memoria avesse come obiettivo dare conferma alla propria esistenza. Un modo per riconciliarsi con chi erano e rialzare l’asticella della propria autostima. Quel tipo di rievocazioni personali avevano la capacità di annientarmi. Non amavo pensare al mio passato, o arrovellarmici dentro pertanto ascoltare estranei disquisire sul proprio mi costringeva a resistere per non mandarli al diavolo. Era una perdita di tempo, almeno per me, ripensare al passato. Tanto le tracce erano dentro di noi. Indelebili. Te le portavi addosso anche senza dover per forza occupare la mente nel ricordare scene di vita vissuta come fossero quelle di un film visto al cinema e che appartenevano poi solo a una sequenza di fotogrammi sui quali mettevi didascalie a tuo piacimento ingannandoti e ingannando gli altri del fatto che in fondo eri una brava persona, intelligente, per bene, o vittima delle circostanze e cos’altro pensavi di essere e che il mondo era il contrario di te. Per come la vedevo, per me l’essere umano era solo un miscuglio di cellule replicate di generazione in generazione e nel tempo avevano prodotto un dna portatore di altri individui irrisolti, ovviamente nostri predecessori, che ogni tanto si riattivavano nei momenti di debolezza per romperti i coglioni. Un inconscio/anima/spirito o come lo si voleva definire composto di mille voci che si risvegliavano alternandosi o tutte insieme. Paure e deliri altrui capaci di pilotarti nei momenti di debolezza. Per questo, un giorno mi ero detta che data l’impossibilità di modificare quel dna di personaggi sconosciuti e allo stesso tempo conosciuti forse era meglio vivere a livello base. Direi l’essenziale. Mangiare, respirare, dormire, camminare e soprattutto pensare al minimo. Una sorta di dieta umana per concedere tempo a quelle cellule irrisolte di trovare la pace o almeno imparare a starsene zitte e raccolte, tutte unite dal silenzio della natura in cui avevo deciso di vivere. Trasferirmi in Alaska mi era sembrata a suo tempo la scelta migliore che potessi fare. Non c’era stato nulla a tenermi legata alla mia città natia se non la speranza che qualcosa prima o poi sarebbe cambiato. Ed era stata proprio quella speranza perduta a spingermi a mollare tutto. Per mio fratello era stata una fuga, per mio padre un atto di codardia, per mia sorella una follia, per zia Wendy il modo migliore per ritrovarmi e per mia madre non saprei. Per lei ero all’estero a lavorare in una multinazionale farmaceutica e questo rassicurava la sua indole ansiotica/schizzofrenica. Per quanto fossi consapevole di come la mia scelta fosse una palese forma di evitamento esistenziale me ne ero dimenticata non appena avevo rivisto il piccolo chalet di zia Wendy vicino a Talkeetna offertomi per il mio internato da eremita. Un perfetto rifugio da riadattare in grado di riadattarmi.

Il muso peloso di Sventura arrivò ai miei piedi.
Eccoti cane scemo!
Gli carezzai l’orecchia mezza monca e attesi l’arrivo del suo padrone.
“Amber!…”, disse Patrick affannato, dalla tasca dei pantaloni estrasse il fazzoletto logoro di sé per asciugarsi la fronte lasciando me in attesa di capire cosa c’era di tanto urgente da venirmi a cercare nella radura. Abbassai gli occhi meditabonda sullo sguardo di Sventura che scodinzolando allegro stava devastando con le sue zampe il giaciglio dove poco prima miravo il cielo, compreso il fuscello della coccinella, ora sparita. Nella migliore delle ipotesi era riuscita a volar via oppure nella peggiore era morta sotto le sue zampe senza alcuna pietà, ma soprattutto senza un vero motivo se non il fatto che un cane scemo senza cervello, ma leale e fedele, l’aveva calpestata senza nemmeno rendersi conto di cosa avesse fatto. Ma del resto, che colpa ne aveva il povero Sventura, era più che probabile avessi fatto altrettanto io sdraiandomi a terra poco prima, magari un genocidio di formiche e specie sconosciute. Ecco… La mia dissonanza cognitiva era ripartita a mille. Per ogni evento riuscivo a vedere le mille sfaccettature. Il bene il male, l’inferno il paradiso, gli opposti in ogni cosa. Feci uno sforzo e mi concentrai su Patrick e su cosa avesse di urgente da dirmi.
“Ti sono venuto a cercare…”, e dopo un bel respiro aggiunse: “C’è un tizio che cerca in affitto una casa. E’ in viaggio, e sta cercando una sistemazione. Frank gli ha detto che tu hai un paio di chalet da affittare”.
“Uhm?”, mormorai confusa.
Di solito non accettavo ospiti senza prenotazione, ma conoscevo Frank e potevo fidarmi di lui. Sicuramente prima di avergli dato le coordinate dello chalet doveva avergli fatto il terzo grado.
“Si chiama Oliver e qualche cosa, ma non ricordo, l’ho lasciato alla casa al lago, quella più grande. Gli ho detto che venivo a cercarti”. L’orizzonte a sud si proiettò nelle lenti degli occhiali di Patrick e catturata dalla sfumatura rosea riflessa mi voltai a mirare il tramonto nel suo splendore originale. Altra giornata di sole per l’indomani pensai e mi godetti quel pensiero cercando di allontanare il pensiero che uno di città volesse alloggiare nello chalet sul lago. La gente di città era sempre pretenziosa e poco adattabile. Proprio per evitare grane nell’annuncio specificavo sempre che non c’era connessione internet, televisione, il bagno era esterno e soprattutto che la zona era popolata da orsi e lupi.
“Grazie Patrick, vado a vedere cosa vuole. Torni con me?”, chiesi.
“No, no, approfitto per andare a pescare, l’orario del tramonto è quello giusto”, rispose Patrick, “Ci vediamo dopo, ti porto qualche pesce”.
Per fortuna, pensai. Lo salutai e non proprio felice mi avviai verso il sentiero del rientro con un presagio a bussarmi alle tempie…
Trovai Oliver vattelapesca seduto al tavolo sotto al portico intento a guardare una piantina della zona.
“Buongiorno”, dissi salendo i gradini.
Rapido si alzò i piedi e con un gran sorriso mi strinse la mano.
“Buongiorno, sono Oliver xxxxxxx, mi ha mandato qui Frank del xxxxxxx”.
“Sì, lo so, benvenuto”.
“Sono in viaggio, sono arrivato oggi da xxxxxx e pensavo di restare nei dintorni un mese circa, sto facendo delle riprese fotografiche”.
“E’ la prima volta che viene in Alaska?”.
“Sì”, rispose.
“Be’ sono sicura che troverà molto da fotografare qui, ma le consiglio di trovare una guida o almeno un fucile, la zona è battuta da orsi e altri animali, meglio non addentrarsi la mattina presto, è l’orario in cui cacciano”.
“Ah, lei conosce qualcuno che può fare al caso mio”.
Scossi la testa. “Non saprei, forse…”, ci pensai un po’ su. “posso sentire Frank, di sicuro lui ha la persona giusta”.
Alzai il vaso e presi la chiave della porta.
“Le mostro la casa. Non aspettavo ospiti e quindi non è stata aperta, se decide di prenderla, verrò a fare le pulizie subito”.
“Non si preoccupi, se il dentro è bello come il fuori starò benissimo”.
“Le faccio portare la legna da Patrick così può accendere il camino”.

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Se smetti di sognare allora stai dormendo

Se smetti di sognare allora stai dormendo

Se smetti di sognare allora stai dormendo!

Questa frase non è una mia creazione, l’ho letteralmente rubata alla serie televisa “Aiutami Hope!” di cui ero una grande fan. A fine post trovate un piccolo estratto della puntata.

Ricordo ancora l’effetto che ebbe su di me quando, sdraiata sul divano, ascoltai quel piccolo seme di saggezza dalla voce del protagonista. Fu una sorta di illuminazione pura.

3:12 minuti di sequenza capaci di farmi prendere la decisione di crederci. Perché sì. Perché era vero… se smettevo di sognare allora potevo definirmi morta. Quindi, non facevo del male a nessuno a sognare. Qualsiasi cosa. Senza impegno, senza accanimento. Perché era giusto così.

Divenne il mio motto. Ogni qualvolta incappavo in un’ostacolo, che fossi io o altro, mi ripetevo quella piccola ma potente frase. Se smetti di sognare allora stai dormendo.

Spero sia fonte di ispirazione questo piccolo concetto e che l’estratto dalla puntata di “Aiutami Hope!” riesca a dare la stessa illuminazione o spinta a non rassegnarsi.

Ovviamente questo è solo un motto, non salva dalla sfiga o rotture quotidiane, ma ha un che di leggero nel suo significato, e per questo è simpaticamente utile.

Un pensiero magico

Un pensiero magico

L’amore è incondizionato: In amore non ci sono condizioni: ama senza una ragione, senza una spiegazione. Sei libero di essere ciò che sei e permetti agli altri di essere ciò che sono”.

Socchiusi gli occhi e sospirando con rassegnazione riposizionai la carta della sibilla in cima al mazzo.

“Cosa è uscito?”, chiese mia sorella sdraiata sul divano intenta a digitare in modo compulsivo al cellulare.

 “Una teoria”, risposi saracastica. Dannazione. Ci cadevo sempre nel tranello dell’oracolo. Me lo ripromettevo sempre di evitare la trappola della chiaroveggenza, ma purtroppo la curiosità e la subdola malattia del pensiero magico alla fine risultavano essere più forti della mia volontà e attirata come una magnete al tavolino del soggiorno di mia sorella alla fine ne prendevo sempre una trattenendo il respiro. “Significativo!!!”, esclamò sarcastica senza togliere gli occhi dal cellulare. “Significativo!?”, bisbigliai tra me. Che diavolo voleva dire quel messaggio se lo proiettavo sulla mia vita? Tradotto nella vita reale e soprattutto nella relazione con un certo Davide, conosciuto un paio di mesi prima, significava, in sintesi, continuare ad amare uno stronzo comunque, senza una ragione… essere libera di mostrarmi ebete e permettere a lui di essere sempre e solo uno stronzo. “Guarda che sei tu a dare i significati, in fondo se adesso alzi un’altra carta verrà fuori tutt’altra sibilla e di conseguenza gli darai sempre un’interpretazione in base a quello che ti porti sulle spalle. Quindi se vuoi stare con il bicchiere alzato e sentirne il suo peso sono fatti tuoi”. Osservai Lorena un po’ rancorosa. Trentacinquenne, single, resuscitata da un rapporto manipolativo e da un anno fedele alla nuova cultura del pensiero magico. Arcangeli, Guru, Sciamani, Counselor, Motivatori etc., tutta gente disperata al pari di lei che aveva dato un senso alla propria vita facendosi portatori sani di insegnamenti millenari in corpo e mente insani. Non ci credevo a tutta quella pagliacciata relativa alla consapevolezza. Se per millenni quelle teorie non avevano portato alcuna illuminazione, luce ed essenzialmente liberato l’uomo dal dolore interiore che senso avevano in questo millennio se non rendere le persone più sofferenti a se stesse. Avevo l’impressione che l’avvento delle tecnologie eteree si fosse aperto il vaso di pandora. Per ogni circostanza, evento, silenzio, per Lorena e quelli come lei c’era sempre un principio di fondo, da ricercare, analizzare, per darne un senso, un significato, un giustificativo. Non so cosa la spingesse a stare dietro a tutte le teorie improbabili dell’universo, immagino la fottuta speranza che le cose potessero essere diverse e che lei avendone trovato la radice fosse più speciale di altri. Lo chiamavo il fenomeno dell’individualismo divino. Ognuno si sentiva Dio… dimenticandosi che Dio era solo una illusione come la conoscenza della verità sempre frammentaria. Tuttavia, dovevo ammettere che mia sorella riusciva sempre a elargirmi visioni quanto meno interessanti. Per dispetto e anche per spirito scaramantico alzai di nuovo una carta e…. “L’amore è la medicina che accelera la guarigione: Ama te stesso, ama il prossimo, ama i tuoi nemici, ma inizia dall’amore per te stesso. Non puoi amare gli altri finché non ami te stesso. Se non ami te stesso, non puoi amare nessun altro”. “Già”, borbottai lanciando la carta sulle gambe di Lorena.

Senza staccare  le mani dal cellulare diede una rapida lettura alla sibilla. Quando ebbe finito la schizzofrenia digitale prese la carta tra le mani e sventulandomela sotto il mento disse: “Vedi è tutt’altro significato, c’è bisogno di amore nella tua vita”.

“Certo, certo”, risposi. “Quindi dovrei amare comunque a dispetto di tutto e tutti. La parola amore ormai è sinonimo di abuso. Se ami è permesso tutto, a prescindere. Ama e sarai perdonato, basta amare e le tue colpe saranno dmenticate. Vallo a dire a chi è morto in una raffineria o è caduto da un ponte. A me sembra una cazzata”.

Lorena sospirò. “Vuoi che ti dica come stanno le cose?”.

“Ah beh, se lo sai tu, dimmelo. Toglimi dal mistero della vita” risposi.

“Sarò chiara e disincantata. Lo so cosa pensi in merito al mio disincanto. Comunque, il mio consiglio spassionato è mollalo, punto e basta. E’ solo problema di ormoni il tuo. Scommetto che lo hai conosciuto durante l’ovulazione”.

“Scusa?”, chiesi interdetta “E questa?”. Dal tavolino raccolse una rivista delle sue.

“Ho letto proprio ieri uno studio interessante”, disse sfogliandola, “una di quelle ricerche fatte da un famosa università americana che chiarisce scientificamente da dove originano le nostre scelte inconsce”.

“Se mai fosse possibile…”, borbottai derisoria.

Lorena raggiunta la pagina dell’articolo mi porse la rivista.

“Leggilo! Pare che durante il periodo dell’ovulazione la donna tenda ad effettuare delle scelte ormonali affrettate e, se le capita di conoscere una persona in quei giorni, può avere l’impressione di aver trovato l’uomo della sua vita. In sintesi può capitare che una donna possa così scegliere l’uomo che non rispecchia affatto i suoi gusti, solo in base allo sfasamento ormonale mensile”.

Guardai l’immagine di apertura dell’articolo firmato da una certa Annabella Stuardi in cui un uomo e una donna stavano avvinghiati in quello che presumibilmente era un rapporto sessuale, finto. Girai pagina e invece di leggere mi limitai a guardare le immagini a corredo del testo. “Non saprei”, borbottai metidabonda su un’altra foto in cui erano raffigurati un gruppo di giovani tutto sorrisi e tendenza. Chissà quanto avevano guadagnato per dare quel sorriso ad una foto? Me lo chiedevo sempre davanti alle pubblicità. Ma soprattutto, mi domandavo se i protagonisti immortalati sapessero a cosa sarebbe servita la loro immagine. “Hanno davvero fatto una ricerca per dare un significato alla chimica? Quanto hanno speso, e come hanno fatto? Comunque non c’era neppure bisogno di perder tempo. Il risultato ci paragona agli animali, che in fondo siamo. Non è un mistero. Diciamo che non è la scoperta dell’acqua calda e la teoria in parte giustifica bene l’animalità che risiede in noi”. Chiusi la rivista unendola alla pila delle altre sul tavolino senza leggere alcuna riga. Odiavo la pseudoscienza elargita in quel tipo di articoli. “Beh, ma ti ricordi il giorno in cui vi siete conosciuti?”, chiese. Ci riflettei un po’ su. Davide lo avevo conosciuto al compleanno di Teresa. E non so come, nonostante fosse l’antitesi degli uomini che piacevano a me, anche se sinceramente definire chi mi piacesse era tutto dire, considerato che se mettevi i vari personaggi transitati nel mio cuore uno di fianco all’altro  sembravano i personaggi di un circo, compreso il nano, lui invece mi aveva come si usa dire preso subito, o meglio le sue mani, per tutta la sera non avevo fatto altro che cascarci sopra con gli occhi. “Sono sicura che eri in ovulazione piena”. Curiosa e in parte anche interessata a sfatare mia sorella dal cellulare cercai nell’agenda la data del compleanno di Teresa, e poi il giorno marcato “x”. “Ovulazione piena”, confermai stupita e allo stesso tempo quasi incuriosita. “Ecco, allora tanto per toglierci il dilemma e il problema, e come ami sostenere tu, evitando di dare spiegazioni troppo magiche, è semplicemente un uomo da ormone, quindi ciccia, non ci sono altre spiegazioni. Sesso puro e semplice ed è quanto ti offre Davide”. Sorrisi e acconsentii divertita dalla versione di mia sorella…   © –  Sara Tessa – Tutti i diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, dei contenuti inseriti nel presente portale, ivi inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei contenuti stessi mediante qualunque piattaforma tecnologica, supporto o rete telematica, senza previa autorizzazione scritta di Sara Tessa.      
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